Il direttore d’orchestra nuova guida della città di Amburgo interviene nel dibattito sulla censura agli israeliani nell’arte «Dobbiamo fare il nostro mestiere, non slogan e politica»
Lo dice subito, in una frase. «Se sei un artista, per il quale la libertà è l’unico criterio guida, non puoi boicottare un altro artista». Classe 1981, israeliano di Be’er Sheva, «ma ormai anche mezzo italiano», Omer Meir Wellber non capisce «da artista gli appelli al boicottaggio che arrivano dalla Mostra del cinema di Venezia, ma anche da altri intellettuali». Poi il direttore d’orchestra, sino a giugno guida del Teatro Massimo di Palermo e pronto ora ad iniziare dal 1 settembre il suo nuovo incarico di Generalmusikdirektor ad Amburgo, senza pensarci troppo sgombera il campo. «Benjamin Netanyahu sta facendo cose orribili solo per restare a galla, perché sa che appena dovesse cadere finirebbe direttamente in carcere. Ormai in Israele sono in pochi a stare dalla sua parte». Parole che va ripetendo «doverosamente ormai da due anni perché dal 7 ottobre, ogni volta che dirigo da quale parte o ogni volta che rilascio un’intervista mi si chiede cosa penso del premier israeliano. Lo dico, lo ridico… sta facendo cose orribili. Ma è una cosa scontata, che non è necessario forse nemmeno più ribadire di fronte a quello che sta accadendo».
Ma resta perplesso, il direttore d’orchestra, di fronte agli appelli al boicottaggio. «Perché le cose sono molto più complesse di quello che sembra, non è tutto bianco e nero, non ci sono buoni e cattivi… E il tema del boicottaggio ci costringe, ancora una volta, a interrogarci sul ruolo dell’arte e sul compito di noi artisti. Oggi si vuole boicottare Israele, ieri era la Russia, domani forse sarà l’America… anzi no, perché gli interessi economici, qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti, non lo consentiranno mai». Guarda al passato e fa alcuni esempi Wellber. «Pablo Picasso, un grande, era spagnolo. E in quel momento in Spagna c’era il regime di Franco, un cattivo, certo, ma nessuno si è sognato di dire: boicottiamo Picasso o nessuno a Parigi ha annullato una mostra del pittore solo per il suo essere nato in Spagna, la patria del generale. E lo stesso Picasso, che pure era avversario di Franco e ne ha denunciato i crimini con il suo Guernica, ci ha pensato bene prima di dire no agli inviti di Franco ad esporre le sue opere, perché comunque la Spagna era il suo paese e lo amava».
E ancora. «Leni Riefenstahl, la grande fotografa tedesca era da boicottare perché amica di Hitler? Io dico di no. Certo Hitler era il criminale che tutti conosciamo, ma l’arte della Riefenstahl va oltre le sue frequentazioni tanto che nelle sue opere non c’è traccia di antisemitismo». E quando nel 1992 «la mafia uccise i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a nessuno venne in mente di dire: boicottiamo l’Italia per la paura della mafia».
Ed ecco il punto centrale «per dire che il boicottaggio non solo è stupido, ma soprattutto va contro la nostra natura e vocazione di artisti per i quali la cosa più importante è la libertà. E se vuoi la libertà – spiega il direttore – devi anche dare la libertà agli altri e hai il dovere di usare la tua libertà al meglio. Non capisco questi appelli al boicottaggio, non li capisco da artista. Da artista non ho scelta, devo inseguire la libertà se dovessi scegliere sarei altro, sarei un politico…un Trump, una Merekel». Boicottare, dunque, va contro la natura stessa dell’artista per Wellber. «Perché io da artista devo affrontare ogni giorno i miei demoni, devo fare i conti con me stesso, con la morte, con le mie radici. Un confronto, un pensiero, una lotta dai quali nasce l’arte, dai quali può scaturire qualcosa di interessante per il pubblico».
E per dire che prima di tutto conta il valore dell’arte fa un altro esempio. «Sono un fotografo, cammino per la strada e vedo un soggetto che con l’intensità del suo volto mi cattura. Lo fotografo. Se poi ci bevo un caffè e capisco che è una persona inetta e cattiva, questo non sminuisce l’intensità del mio scatto perché il punto non è ciò che questa persona pensa, ma il valore artistico del mio lavoro». Così per il musicista «gli appelli al boicottaggio lanciati da Venezia, ma anche da altri intellettuali militanti rischiano di essere solo slogan, un video di venti secondi per farsi pubblicità. Ma se davvero sei un artista non parlare a slogan, fai quello che sai fare, inventa, crea, scrivi un libro, gira un film di denuncia, che faccia riflettere. Se sei un artista – riflette Wellber – devi reagire a ciò che accade nel mondo, ma devi farlo dentro il tuo medium perché se esci dal tuo mezzo fai altro, fai politica, che va bene, ma non è più arte».
E l’effetto boomerang è dietro l’angolo. «Se parliamo a slogan rinunciamo alla nostra vocazione di artisti e come allora poi potremo essere ancora credibili?». E il rischio di auto sabotarsi è grande. «Questi boicottaggi non hanno mai funzionato, diciamo la verità. Cosa si crede che poi qualcuno mi dica: guarda che bravo artista perché ho scritto Free Palestine sui social? E una volta finito tutto come si può pensare di tornare a collaborare come se nulla fosse accaduto con artisti – che siano israeliani, russi, africani – che si sono messi al bando? È assurdo per me pensare che dicendo la mia e togliendo la libertà ad un altro possa davvero credere di fare la cosa giusta». Wellber rincara la dose. «Mi sembra che quella parte che vuole essere tollerante usi le stesse tecniche che usavano il fascismo e il nazismo. Nella Notte dei cristalli vennero bruciati i libri degli ebrei, i libri dei nemici, per boicottarli. Ma l’arte non può essere nemica. E io come artista, per di più israeliano, dico invece: vennero bruciati dei libri, vennero bruciate opere d’arte». Allora per il musicista «noi artisti dobbiamo tornare ad usare il simbolo per comunicare. Non siamo fisici che descrivono un fenomeno, ma siamo scrittori, registi, musicisti che devono inventare, offrire strumenti al pubblico per interpretare attraverso l’arte il presente. Io posso dirigere un concerto. Certo, se fossi stato il presidente degli Stati Uniti avrei fatto altre scelte, ma non è il mio ruolo. Dirò di più. Se da artista dovessi esprimermi su questioni politiche sarebbe bene che lo facessi su ciò che accade nel mio paese, su ciò che conosco. Perché poi si rischiano incongruenze come la Spagna che chiede libertà e poi non la concede ai baschi o ai catalani, o alla Francia che riconosce lo Stato di Palestina, ma poi ha ancora domini in mezzo mondo».
Mette sul tavolo alcune idee il direttore d’orchestra. «Se fossi il direttore della Mostra del Cinema di Venezia dedicherei il prossimo festival a Israele e Palestina, ad esempio, oppure finanzierei film da affidare a registi russi, ucraini, israeliani, palestinesi assegnando un tema comune sul quale poi, attraverso l’arte, confrontarsi. E agli operatori culturali israeliani dico: perché non promuovere a Tel Aviv un festival del cinema iraniano? Dobbiamo conoscerci, anche attraverso l’arte, per comprendere il nostro modo di guardare la realtà» spiega ancora Wellber, dicendo poi di «restare sempre stupito dalla velocità con la quale il mondo dell’arte si lascia contagiare da certe proposte, come quella del boicottaggio. In economia tutto questo non avviene così rapidamente, anzi, non avviene proprio. Perché in Europa nei giorni scorsi è caduta la proposta di boicottare l’hi-tech israeliano? L’unico boicottaggio che andrebbe davvero a segno, facendo finire tutto nel giro di due giorni, è quello economico. Ma dovrebbero metterlo in atto i governi. La vera rivoluzione di Ghandi? Pacifica, certo, ma convinse perché tutti smisero di fare e dunque di produrre… Il resto lascia il tempo che trova. E se come artisti rinunciamo al nostro compito diciamo: ha vinto la politica che mette al centro l’economia, ha vinto il capitalismo».
Wellber è critico nei confronti del suo paese. «Israele ha fatto scelte sbagliate, il governo è da condannare, ma il nostro è uno dei paesi con più successi al mondo. Se abbiamo un iPhone tra le mani lo dobbiamo alla ricerca israeliana. Allora basta Apple? La medicina collabora con tutto il mondo, i professori israeliani sono disperati perché sono tutti contro la guerra, li vogliamo boicottare?». Il pensiero va anche al boicottaggio di autori di ieri. «Trovo infantili e cretine le censure quando si parla di gente morta, tipo non mettiamo più Cajkovskij in cartellone perché russo. In questi giorni sto rileggendo Il maestro e margherita di Bulgakov, una denuncia feroce dello stalinismo e dei regimi, allora censuriamo anche lui?».
Un atteggiamento che «mi irrita, perché mi disturba la mancanza di rispetto per l’arte che vedo in queste prese di posizione a spot. Se butti lì uno slogan, ma non fai un film, non scrivi un libro, se non fai il tuo compito di artista allora vuol dire che non credi davvero alla forza dell’arte e sei nel posto sbagliato. Puoi fare mille cose per denunciare, ma devi farle restando sempre nel campo artistico». Wellber dirige. Da artista devo invitare il pubblico a cambiare gli occhiali con i quali guardare l’arte e di conseguenza la realtà. «Lo farò anche con il cartellone della mia prima stagione ad Amburgo dove in ogni programma che proporrò ho voluto commissionare un frammento di mucia nuova a un musicista contemporaneo. Così un movimento di un concerto o di una sinfonia di un autore classico verrà sostituito da uno commissionato appositamente nello stesso stile, con lo stesso numero di battute, rispettandone lo spirito… e questo nuovo movimento sarà eseguito al posto di quello originale – che non verrà proposto. E il primo titolo operistico sarà qualcosa che non è nato come opera, Il paradiso e la Peri di Robert Schumann… e anche questo sarà un modo di guardare la realtà con altri occhi».
Un modo per dire chiaramente una parola sulla realtà. «Potrei andare sui giornali e gridare: Basta guerra! E lo faccio… ma il mio compito di artista è diverso. Va oltre lo slogan». Dunque Wellber dirige. «Ma scrivo anche. Proprio in questi giorni in Israele viene pubblicato il mio nuovo romanzo, Ciò che le mani ricordano, una storia che parla di perdono, che evoca Caino e Abele. È la storia di un ragazzino russo di origini ebraiche che emigra in Israele con i genitori per scappare da una responsabilità, aver provocato per sbaglio la morte di un amichetto caduto in un lago ghiacciato. In Israele diventa un attore di successo… interpreta il Riccardo III di Shakespeare, assassino efferato, e in un corpo a corpo con il personaggio cerca di perdonarlo per perdonare anche se stesso. Nel delirio finale incontra la madre del ragazzino di cui ha causato la morte e la donna, stremata e stanca, gli chiede di ucciderla per poterlo perdonare. Una storia che racconto senza citare i conflitti di questi anni. Eppure, per chi vuol capire, il messaggio è chiaro».

Nelle foto @Rori Palazzo Omer Meir Wellber
Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 29 agosto 2025