Allo Staatstheater di Magonza l’estremo capolavoro di Puccini in un nuovo allestimento con regia, scene e costumi di Falaschi «Per farci ascoltare non dobbiamo addomesticare l’opera»
Una Turandot sporca, dura come la vita. Come il mondo nel quale viviamo. «Un mondo dove l’empatia è fragile e la difesa del proprio diventa spesso disprezzo dell’altro». Una società che cannibalizza. Dilania. Dove, però, «raccontare è ancora possibile». Cambia, certo, il come fare questo racconto. Gianluca Falaschi ha scelto di farlo accettando di «stare dentro lo sguardo». Perché «un mondo sporco non possiamo più raccontarlo da puliti». Così la sua Turandot, sua e di Giacomo Puccini, naturalmente, ha qualcosa di “sporco”. Perché affonda le mani nella vita. Nuovo allestimento dell’estremo capolavoro del compositore toscano che arriva, spenti ormai i riflettori sulle celebrazioni per il centenario della morte del musicista, allo Staatstheater di Mainz, in Germania. Lo firma interamente Falaschi, sue regia, scene (disegnate in collaborazione con Ulrich Schneider) e costumi (realizzati insieme ad Anna Missaglia) della Turandot che si replica sino a fine 2025 – Magonza è un teatro di repertorio, spalma le recite delle opere su tutta la stagione e riprende gli allestimenti negli anni. Magonza, la città di Gutenberg, dove Falaschi ha debuttato come regista in tempo di Covid, con una Adriana Lecouvreur dal sapore di Viale del tramonto. E dove l’artista romano è tornato ora per il suo primo Puccini (che ha già incontrato, disegnando i costumi della Tosca che ha inaugurato nel 2019 la stagione del Teatro alla Scala) dopo Cilea (portato anche a Düsseldorf) , dopo il barocco de L’Angelica di Porpora a Martina Franca e de La Griselda di Vivaldi alla Fenice di Venezia, dopo titoli rari come Chiara e Serafina di Donizetti a Bergamo o La vestale di Spontini a Jesi. Primo Puccini da regista per Falaschi a Mainz – Francesco Cilluffo sul podio, Julija Vasiljeva è Turandot, Antonello Palombi (che proprio a Mainz, con una Manon Lescaut, ha dato nuovo slancio alla sua carriera) è Calaf, Julietta Aleksanyan è Liù. Drammaturgia di Elena Garcia Fernandez. Sul palco un casinò, o forse un Bingo di periferia. Violenza. Da gang urbana. Fumo e alcool. Odore di male. «Perché Turandot – si dice convinto Falaschi – parla di ossessione, di potere, di fallimento, di desiderio come spinta distruttiva».
Turandot è un titolo che anche chi non è appassionato d’opera conosce. O almeno pensa di conoscere. Che sfida è stata per te come regista, Gianluca Falaschi?
«La sfida più grande è stata quella di cambiare prospettiva di fonte a un capolavoro popolare come quello di Puccini. Turandot è un’opera imponente, spesso trattata come un monumento da conservare chiusa in una teca, protetta da un’estetica esotica che ne ha smorzato la forza archetipica. Ma questa favola non è né dolce né rassicurante. È una storia antica, aspra, fatta per adulti. E anche se con il tempo si è tentato di addomesticarla, sfugge continuamente. Ho cercato, allora, di restituirle questa tensione, liberandomi da alcune trappole in cui potevo facilmente cadere, per raccontarla come un sogno — o un incubo — o forse come un viaggio interiore, fatto di desiderio, ossessione, inquietudine. Ho seguito le tracce di un uomo, a volte anche di Puccini, immaginandolo intrecciare alla musica alcune domande della sua stessa vita. Domande sul tempo, sulla vertigine del desiderio, sull’ambizione, sull’idea di fine».
Chi è Turandot nel tuo racconto? Chi è Calaf?
«Turandot, per me, non è una donna, ma un’idea: la vita che non si lascia afferrare, la morte che non si fa guardare, il potere che non si concede. È l’ossessione stessa del vivere. Turandot non ama, non cambia, non redime. È una presenza fissa, ossessiva, che tutti cercano di attraversare senza davvero comprendere. È la padrona del gioco, la vertigine che si prova quando ci si affaccia su un burrone. E Calaf non è l’eroe per antonomasia, ma è soprattutto un uomo. Un uomo adulto che cerca ancora di affermarsi. Che si rischia in una sfida, l’ennesima. Che attraverso questo rischio perpetua in sé il senso di una vita nutrita da eccitazione, dopamina, possibilità. Turandot per lui è il mezzo, non il fine. Calaf insegue un enigma per salvare se stesso dall’oblio. Non ama: si misura, si ritiene più forte della vita stessa e perde. Tutto. Per me Calaf è in qualche maniera tutti noi. È l’immagine di un’umanità che tenta di sopravvivere a se stessa perpetuandosi in un gioco che si illude di poter vincere.
E Liù?
Liù è un’altra lingua. In questo racconto è l’anomalia. Ama senza possedere, sceglie il silenzio, accetta il margine. È l’unico gesto di gratuità in una storia di desiderio e possesso. Per questo Liù scompare. È al tempo stesso troppo reale e troppo ideale per poter restare. Ma il gesto, che è insieme sacrificio e consapevolezza, resta l’ultimo segno di umanità possibile, l’unico anelito alla poesia che il coro riconosce come cura dopo pagine di sangue».
Siamo nella Cina delle favole, come dice il libretto? O per raccontare tutto questo hai scelto l’attualizzazione?
«Ho scelto la metafora. Non ho cercato una Cina da favola né un’attualizzazione illustrativa. Ho scelto un luogo mentale, una soglia percettiva dove tutto si mescola, un casinò che è insieme spazio onirico, trappola, metafora. Un luogo liminale dove tutto si sovrappone: Oriente e Occidente, desiderio e potere, superficie e abisso. È un luogo dove si scommette, si perde, si rilancia. Una metafora del nostro tempo — e forse della nostra condizione esistenziale. Come Dante nella selva, come Ulisse davanti al canto delle sirene, qui ci si ritrova nel mezzo del proprio smarrimento e si continua a camminare. I segni visivi in scena — insegne, draghi, paillettes, lanterne — sono solo tracce stanche di un esotismo ormai digerito dall’Occidente. Sono la riprova di un colonialismo culturale che in qualche maniera esce sconfitto, come le persone che lo hanno guidato. Questo è il regno di Turandot che non è una principessa, ma è, appunto, la vita stessa, il tempo che ci sfida, l’ignoto, che governa questa bisca, in un’effimera manciata di promesse. L’esistenza, in poche parole».
Perché è importante che l’opera parli al nostro tempo?
«Perché altrimenti diventerebbe un rituale vuoto, una liturgia che si ripete senza più senso. Non credo nell’attualizzazione fine a se stessa, ma credo nella responsabilità di raccontare, ogni volta, al presente ciò che un’opera ha di assoluto. Non credo che l’ambientazione interferisca davvero con la lettura, ma credo che l’ ambientazione sia essa stessa strumento di rappresentazione di un contenuto. Il nostro tempo è complesso, contraddittorio, disilluso. E il teatro deve abitarlo, senza moralismi, ma anche senza evasione, cercandone le forme per esprimerlo. Turandot per me parla di ossessione, di potere, di fallimento, di desiderio come spinta distruttiva. Non ho aggiunto nulla, la storia è tutta lì. Io credo che ogni opera contenga un nucleo bruciante, un desiderio, una ferita, una domanda che ci riguarda ancora. A noi spetta rimetterla in circolo, senza nostalgia e senza paura».
Nella Turandot c’è l’aria forse più famosa (e abusata) di tutta la lirica, il Nessun dorma, che per tanti è il Vincerò saccheggiato dalla pubblicità.
«La vera scommessa è stata spogliarla di ogni parvenza di trionfo. In questo allestimento il Nessun dorma non è una vetta, ma un limite instabile, un bordo da cui si rischia di cadere. Calaf è un uomo che, diventando adulto, guarda in faccia le passate sfide, ancora desideroso di lottare ancora. Quel «Vincerò» è per me, in questo spettacolo il grido disperato perché qualcosa continui, perché ancora si possa camminare, scommettere, rischiare. È un gesto fragile e ostinato, pronunciato proprio poco prima che tutto, vertiginosamente, si sgretoli. Ho trovato in Antonello Palombi, che interpreta Calaf, una grandissima collaborazione in questo. Mi ha aiutato enormemente la sensibilità con cui si è accostato a quest’aria conducendo l’uomo che stavamo disegnando esattamente a questo, un tentativo estremo prima della resa, un pensiero al limite della hybris che sfiora la tracotanza. E come Prometeo, questo Calaf si brucia».
Puccini (e Carlo Gozzi) raccontano una favola, ma una favola crudele di una principessa che taglia le teste. Oggi si può vivere in un tempo delle favole o la realtà ce le fa mettere da parte?
«Oggi non viviamo la fine delle favole, ma a volte ci accontentiamo della loro componente più inoffensiva. Non è la realtà che le ha rifiutate, ma è la contemporaneità che le ha edulcorate. Le favole vere – quelle arcaiche, da Gozzi a Perrault – erano spietate, insanguinate, trasformative. A volte le raccontiamo ancora, ma sintetizzate in formule, in estetiche innocue, in narrazioni reversibili. In simbolismi elementari. Eppure sono ancora il motore narrativo più grande. Penso a film straordinari come Emilia Perez o a narrazioni meravigliosamente taglienti come Triangle of Sadness. Penso anche al cinema disturbante e barocco di Yorgos Lanthimos, da The Favourite a Poor Things, favole nere, inquietanti, profondamente attuali. Penso alle cupe visioni di Matteo Garrone. Penso, in ambito teatrale, al lavoro di Lydia Steier, al rigore spietato e immaginifico di Barrie Kosky, alla miracolosa poetica di Romeo Castellucci. Quando si riesce ad attraversare la forma senza cedere alla convenzione, la favola torna a pungere. In questo allestimento, Turandot è rimasta una favola. Ma una favola che non redime. Per questo ho scelto di fermare la storia alla morte di Liù, lasciando da parte il finale di Alfano. L’ho raccontata per quello che mi è sembrata, una favola interrotta nel momento esatto della sua ferita, scabra, crudele».
La tua carriera è iniziata come costumista, tra lirica e prosa, poi il passaggio alla regia – e hai firmato anche scenografie. Quale l’urgenza che ti ha spinto?
«Non è stata una svolta, ma ritengo un’estensione spontanea. Il costume è già costruzione di un linguaggio e per questo diventa sistema di relazioni, di senso, di pensiero. A un certo punto, semplicemente, ho sentito la necessità di raccontare questa visione nel suo insieme. Sono consapevole che ogni passaggio è anche una frizione e che questa frizione può mettere a disagio chi ha bisogno di ritrovarti sempre nello stesso posto. Ma trovo che in tutto questo sia l’azione di passaggio ad essere interessante per me. Paul B. Preciado in Un appartamento su Urano scrive che “emigrare e cambiare sesso sono due esercizi di transito che, mettendo in discussione l’architettura politica e legale del colonialismo patriarcale, della differenza sessuale e dello stato nazione, collocano un corpo umano vivo ai limiti della cittadinanza e anche di ciò che intendiamo per umanità”. Non voglio forzare paragoni, ma quella frase mi ha fatto luce. Perché è proprio lì, nei gesti che incrinano un’identità fissa, che comincia l’invenzione di una mappa nuova. Il cambiamento, anche il più silenzioso, è sempre un atto di rinascita, di conoscenza, di formulazione di un nuovo linguaggio».
Il mestiere di costumista si impara sul campo, è un lavoro artigianale. Anche quello di regista? E tu come lo hai imparato?
«Sì, anche quello si impara sul campo. Non in senso romantico, ma concreto, guardando, ascoltando, sbagliando. Io non ho frequentato accademie di regia, ma per vent’anni ho lavorato accanto a registi di teatro e d’opera, osservando da dentro processi, crisi, intuizioni, inciampi. E soprattutto ho ascoltato le prove che sono il tempo che serve a un’idea per maturare, per implodere, per trasformarsi. Ho visto tante persone provare, ho visto tanti spettacoli prendere forma, a volte anche smarrirsi, a volte affermarsi con forza. Del mestiere di costumista mi porto dietro, in queste mie incursioni nella regia, il senso artigianale del costruire che significa soprattutto progetto, una certa precisione, studio e un po’ di rischio. E intuizione, anche. A volte mi sembra che in fondo si tratti di un processo similare, mettere in forma qualcosa che ancora non esiste, stabilire delle regole di un mondo ancora da costruire, dare il via ad un gioco di cui si stanno scrivendo le regole».
Come è fare teatro musicale in Germania? Per chi va all’opera al di qua delle Alpi, la scena tedesca è spesso associata al regietheater: a volte interessante, spesso inutilmente provocatorio.
«Fare teatro musicale in Germania significa, prima di tutto, lavorare in un sistema che investe sul processo. C’è tempo, ascolto, possibilità di fallire. Il regietheater non è, come spesso si crede, una scorciatoia provocatoria. È un’idea di teatro che chiede di interrogare l’opera, non di illustrarla. Le forzature di cui tu parli sono una chiara estremizzazione del teatro di regia volte ad un solo obiettivo, incidere nella comunicazione e sui titoli dei giornali. Ma non è frequente, è solo un tentativo di alcuni, davvero pochi, di volersi esprimere come personaggio teatrale, senza mettere al centro un pensiero Teatrale. E questo avviene di rado, perché in Germania il protagonista ultimo dello spettacolo è ancora il pubblico, che non è solo utente, ma è critico, riflessivo, coinvolto. Informato e colto».
E tu che via hai trovato per parlare a questo pubblico? Porti la tua italianità (e romanità) sul palco di Mainz?
«Personalmente fuggo l’idea di personalizzare il teatro che faccio, di identificarlo con la mia persona. Di certo non ho mai voluto “portare” l’italianità in scena come un segno riconoscibile, perché sarebbe stato solo folklore. Credo che il nostro pubblico, quello per cui lavoriamo, non si aspetti mai una cartolina: sarebbe riduttivo, sarebbe meno di niente. È come insistere a riprodurre una Cina che non conosciamo, una forma di semplificazione che svuota l’opera del suo senso. Per ovvie ragioni è il mio sguardo a restare italiano, nutrito dai grandi spettacoli di Roberto De Simone, Giorgio Streheler, Luca Ronconi, dai grandi allestimenti che ho visto ed ho desiderato da giovane, dalle sperimentazioni del nostro teatro di prosa – che è stato un tassello fondamentale nella costruzione del teatro di regia in Europa – oltre che da un senso profondo dell’artigianato teatrale, della concretezza, del racconto che si costruisce pezzo per pezzo su una lingua che è musica e parole. Dopo cinque anni di regia sento che sarebbe giusto costruire un ponte tra questi due mondi, la libertà del regietheater tedesco e la forza della tradizione italiana. Non per conciliarli, ma per metterli in dialogo. Perché credo che proprio lì, nel punto di frizione tra pensieri diversi, nasca qualcosa di vivo».
Ti capita di fare bilanci della tua carriera? Sei il costumista che da ragazzino sognavi di essere? E il regista che con il tempo hai voluto essere?
«Mi capita, sì. E se guardo indietro, lo faccio senza rimpianto, semmai con lucidità. Non c’è una linea retta. Solo un bel tempo che improvvisamente già vedo lungo venticinque anni, fatto di tappe. Alcune cercate con ostinazione, altre arrivate casualmente, fortuitamente. Altre ancora un po’ smarrite, è inevitabile. Riguardando ho il senso della distanza e della fortuna di aver visto più di quanto avrei immaginato. Di essere entrato in luoghi e in pensieri e in dialoghi che da ragazzo non sapevo nemmeno esistessero. Di essere stato, quello sì, davvero fortunato. Eppure resta per me una storia incerta, una storia di cui so ancora il grande innamoramento per il teatro che mi ci ha buttato dentro, ma di cui non so il seguito, non so il divenire. In questa incertezza, non riesco davvero a capire se sono diventato il costumista o il regista che sognavo. Ma so che, nel continuare a farmi domande, a stare in questa dimensione che è quella del dubbio e del tentativo, mi avvicino forse ogni giorno un poco di più alla persona che avrei voluto essere».
L’arte cosa può e cosa deve dire del mondo di oggi? Delle guerre, dell’immigrazione… di tutte le tematiche che ci riguardano come cittadini? E come deve dirlo?
«Credo che oggi il teatro (e l’arte in generale) non possa più limitarsi a rappresentare: deve diventare specchio. Non un contenitore decorativo, ma un luogo in cui ci si riconosce, anche con fatica, anche deludendosi. Un luogo in cui ci si espone. In cui si prende posizione. Perché oggi, più che mai, abbiamo bisogno di sentire che il mondo ci riguarda come individui e come collettività. A volte ho la sensazione che all’interno del sistema teatrale si scambi la bellezza con la risposta. Una bellezza apollinea, svuotata di senso, che si oppone a un intellettualismo altrettanto sterile, pronto a farsi tribuna. In maniera ancora peggiore, quando a volte le due cose si sovrappongono. Non credo nella bellezza come valore assoluto. E non credo nel giudizio manicheo, che a volte nasconde pessima coscienza e ampia semplificazione. Credo nell’urgenza, che genera dissonanza. Credo nell’autenticità e penso che in una verità ruvida, disarmata, risieda una forma più profonda di bellezza. Per me uno spettacolo deve avere il coraggio di essere tutto: disturbante, imperfetto, scomodo. Deve portare una posizione. Non per retorica appunto, ma per necessità. Deve fare i conti con la realtà, senza filtri pacificanti».
Come hai messo questo nella tua Turandot?
«Ti racconto una storia che riguarda proprio questa Turandot. La sera della prima, Liudmila Maytack, artista del coro di Mainz, mi ha regalato un biglietto. Dentro c’era una frase di Dostoevskij. “Ricordate il mio consiglio: non inventate mai né trame né intrighi. Prendete ciò che offre la vita stessa. La vita è molto più ricca di tutte le nostre invenzioni. Nessuna immaginazione potrà mai ideare ciò che a volte offre la vita più semplice e ordinaria. Rispettate la vita”. Questa frase mi ha commosso nel profondo. Perché in quei due mesi il coro, lo splendido coro di questo teatro che mi ha concesso più di venti giorni di prova insieme, non è stato solo sfondo, ma si è fatto materia viva del racconto. Hanno abitato i ruoli con umanità e responsabilità. Erano personaggi gretti, vinti, segnati. Eppure li hanno accolti senza giudizio. Sono stai, davvero, dei giocatori, complici come tutti noi di un sistema sbagliato nel suo essere. Perché chi vince, lo sappiamo, vince sempre sulle sconfitte altrui. Allora, per rispondere alla tua domanda sul ruolo dell’arte, penso che in un tempo martoriato, fatto di distanze emotive, di cecità selettiva, di guerre che dividono, di silenzi colpevoli. In un mondo dove l’empatia è fragile e la difesa del proprio diventa spesso disprezzo dell’altro, raccontare è ancora possibile. Ma solo se si accetta di stare dentro lo sguardo. Dentro un mondo sporco, non possiamo più raccontarlo da puliti. Tacere, edulcorare, tranquillizzare oggi è, di fatto, la forma più grave di complicità».
In apertura Gianluca Falaschi @Stefano Guindani
Nelle foto @Andreas Etter Turandot allo Staatstheater Mainz