La regista palermitana inaugura il Maggio musicale fiorentino mettendo in scena tra fiaba e incubo l’opera di Richard Strauss
Salome potrebbe essere figlia di una delle tante famiglie di oggi. Di quelle che popolano la cronaca. Famiglie allo sbando. Famiglie dove sono cresciuti figli che, «inspiegabilmente» si sente dire spesso, sono diventati violenti. «Figlia di una delle tante nostre famiglie. Che soffre. Per mancanza di amore». Perché la Salome di Emma Dante è una ragazza «annoiata dalla vita. Che ha bisogno d’amore». Ritratto modernissimo pur in una visione da fiaba inquieta alla «A mille ce n’è…» come cantava il mangiadischi quando da bambino mettevi il vinile delle Fiabe sonore. La Salome di Richard Strauss che il 13 aprile ha inaugurato l’edizione numero ottantasette del Maggio musicale fiorentino. Bacchetta di Alexander Soddy, britannico, classe 1982, in pole position per il ruolo di direttore musicale della fondazione lirica toscana. Protagonista (applauditissima) Lidia Fridman, La Salome inquieta di Strauss. Vista – la figlia di Erodiade che in cambio della sua danza chiede al patrigno Erode la testa di Giovanni Battista – attraverso la lente deformante «dell’incubo» dalla regista palermitana, classe 1967. «Salome – dice Emma Dante – non è un’opera accogliente, respinge, urta perché ti tira fuori tutti i demoni che hai dentro».
Anche Salome, Emma Dante, diventa una delle sue creature teatrali a metà tra sogno e incubo?
«Salome è a buon diritto una delle figure che indago esplorando, sul palco, l’universo femminile. Mi interessa il groviglio psicologico che avvolge i personaggi. E Salome non fa eccezione. Una donna che ha bisogno d’amore, modernissima, dunque, perché la mancanza d’amore nelle famiglie, lo sappiamo bene guardando i fatti di cronaca di oggi, genera sempre tragedie. Mi interessa immergermi nell’abisso di Salome, raccontare la sua tragicità».
Come si è avvicinata a questo abisso?
«Ho letto il testo e ho ascoltato l’opera che non conoscevo, avevo sentito solo la celeberrima Danza dei sette veli. Salome richiede un tempo dedicato, non è un’opera che si ascolta distrattamente mentre si cucina. Occorre mettersi nella condizione di entrare in un incubo. Quello che la musica racconta insieme alle parole di Oscar Wilde. Il libretto, a differenza di altri libretti d’opera che sono un po’ improbabili, è molto letterario. Le parole, il testo, i personaggi hanno alle spalle una drammaturgia molto complessa e ben costruita. Quello di Wilde è un libretto scritto non solo per la musica. Sicuramente difficile da mettere in scena perché non c’è il solito triangolo amoroso che il melodramma ci consegna abitualmente con un lui tenore che ama una lei soprano che a sua volta è amata da un altro, un cattivo, il baritono. Qui, invece, ci sono triangoli di possessione. Nessuno si ama. Ci sono solo sensualità, desiderio, sopruso».
Salome è un’opera che trasuda sensualità, è vero, ma è anche intrisa di spiritualità, è ispirata a vicende della Bibbia e Giovanni predica la conversione…
«L’inno alla bellezza di Jochanaan che Salome canta mi fa pensare al Cantico dei cantici. Quello che viene espresso qui è un amore totale, carnale e spirituale. Salome vuole baciare la bocca di Jochanaan, ma desidera la sua anima. È il primo uomo che, nella noia della reggia di Erode, non la fa sentire sola. Intorno a Salome c’è un mondo finto, dove si mangia e ci si diverte. Dove i soldati sono pupi di porcellana che hanno movenze simili a quelle degli oggetti. Una meccanicità, un automatismo che ho voluto mettere in scena per dire il rischio di perdere la nostra anima. Salome è una lingua di fiamme rosse, dove passa lei balla il fuoco».
A proposito di pupi… la Sicilia, la sua terra, c’è sempre nei suoi spettacoli. Un suo marchio?
«Ma non la voglio mettere per forza, non è un lavoro che faccio a tavolino. Certo Palermo, dove sono nata, è una città dal forte carattere ed è difficile escludere questa impronta dalla vita degli artisti. La gestualità, le voci, le suggestioni della Sicilia sono talmente radicate in me che ogni volta che faccio uno spettacolo escono automaticamente… e il pubblico le vede sempre, anche dove non ci sono».
La Salome di Firenze arriva sulla soglia della Pasqua. Parla anche di fede, una fede che nella sua Sicilia ha un respiro popolare. Lo avverte?
«Non sono religiosa, sono però legata ai rituali della tradizione. Le festività, specie quelle religiose, sono sempre unite a un incontro di popolo. E il ritrovarsi, lo stare insieme significa anche fare teatro, riconoscersi nell’altro, guardare l’altro con occhi diversi. Questa dimensione è un nutrimento per il mio teatro».
Cos’è per lei la spiritualità
«È qualcosa che abbiamo perso. Il teatro è un tempio dove possiamo ritrovarla. Però bisogna essere disposti ad entrare in questa dimensione, a farsi contagiare dalla spiritualità. Ciò che ci toglie questo oggi è lo sguardo genuflesso che abbiamo sui telefonini. Il teatro, invece, ci insegna uno sguardo diritto, verso l’alto».
A teatro racconta tante storie di donne. Come racconterebbe, invece, gli uomini di oggi?
«Raccontando le donne racconto anche gli uomini. Non credo in buoni e cattivi, in definizioni nette. Ma in una lettura del mondo attraverso le persone. Mi ritrovo a raccontare storie di donne e mi accorgo che parlo anche di uomini e mi piace pensare che gli uomini possano rivedersi nelle storie che porto in scena».
Fa bilanci della sua vita artistica?
«Continuamente e continuamente mi dico: adesso smetto. Perché ho paura di cadere nella banalità, nel rischio di avere esaurito tutto ciò che volevo raccontare. Forse con l’opera lirica mi sento un po’ arrivata, perché sento di aver detto tutto quello che avevo da dire. Ora avverto la necessità di chiudermi in una sala prove con la mia compagnia per capire cosa vogliamo dire del nostro mondo Oggi tutti dicono tutto, ma nessuno davvero ascolta quello che l’altro dice. Vorrei ancora raccontare la crisi della famiglia. Famiglia che per me è tutto, il luogo principale della responsabilità. Adesso ancora di più dato che viviamo in uno stato perenne di allerta per l’uccisione di tante donne da parte di giovani che quasi come uomini delle caverne con il coltello tra i denti uccidono. Su questo voglio farmi domande e capire quale può essere il ruolo dell’educazione».
E della sua vita di donna fa bilanci?
«Sempre e questi bilanci si intrecciano inevitabilmente con quelli della mia vita artistica. Se smettessi di fare teatro smetterai anche un po’ di vivere».
Nella foto @duequadro Emma Dante
Intervista pubblicata su Avvenire del 16 aprile 2025
Nella foto @Michele Monasta Lidia Fridman in Salome al Maggio musicale fiorentino