Nella Vestale di Falaschi tutta la vita della Callas

L’opera di Spontini in scena tra Jesi, Piacenza, Pisa e Ravenna Gianluca Falaschi identifica la vestale Giulia con la Divina Maria raccontando i tormenti della Callas per il sacro fuoco dell’arte

Inutile girarci in giro. Ci sono certe opere che sono indissolubilmente legate a Maria Callas. Titoli impossibili da scindere dal nome del soprano più grande di sempre. Più grande di tutte. Perché c’è la Callas. E poi ci sono tutte le altre. Che fanno a gara tra di loro per sapere chi è la più brava, chi la più affascinate, chi è la più verdiana e chi la più wagneriana, chi ha la voce d’angelo, chi è la superba, chi la stupenda… sapendo che Maria resta irraggiungibile. Perché è stata tutto. Perché ha cambiato la Storia. La storia della musica… e non solo. Ma il resto, il resto legato alla sciagurata avventura con Onassis è scolo gossip, non è nulla rispetto alla carica rivoluzionaria che la Callas ha portato nell’opera.

Tanto che alcune opere (tante opere) sono legate indissolubilmente al suo nome. Al nome di Maria. Titoli iconici come Norma, MedeaLa Vestale. Storie di donne forti. Eroine tragiche in lotta con il mondo e con se stesse. Come Maria. Norma, Medea… Giulia de La vestale di Gaspare Spontini, autore del quale nel 2024 si celebrano i 250 anni dalla nascita. Lo celebra la sua terra marchigiana. Maiolati, comune che ha voluto chiamarsi Maiolati Spontini per rendere omaggio a uno dei musicisti più grandi di tutti, che ha portato il nome dell’Italia (e il modo di fare musica, che ha fatto scuola in Europa) a Parigi e a Berlino (lo ricorda sempre Riccardo Muti che nei suoi anni scaligeri volle dirigere, per un 7 dicembre, una Vestale). Lo celebra l’Italia lirica con un nuovo allestimento (filologico, nessun taglio, balletti conservati integralmente) de La vestale partito lo scorso anno da Jesi – la terra marchigiana di Spontini – approdato al Municipale di Piacenza e in questo inizio di 2025 pronto a un nuovo giro tra il Teatro Verdi di Pisa (la prima la sera di San Valentino) e il Teatro Alighieri di Ravenna (debutto il 28 febbraio).

Un nuovo allestimento di Gianluca Falaschi – l’artista romano firma regie, scene e costumi. Falaschi che intelligentemente, sapendo che La Vestale è un titolo iconico della Callas, indissolubilmente legato al nome di Maria, non cerca di chiudere in un armadio il fantasma della Divina, ma lo affronta, lo prende di petto, lo guarda negli occhi e lo fa diventare protagonista del suo spettacolo – che nella confezione guarda alla classicità delle forme della Vestale scaligera della Callas con la regia di Luchino Visconti (era il 7 dicembre 1954) tra pareti di marmo, tende candide, costumi che evocano la Roma del libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy. Libretto francese, perché La Vestale fu scritta da Spontini per Parigi, nel 1807 (ma la Callas la cantava in italiano… come si usava al tempo).

E La Vestale di Falaschi parla (canta) francese. Filologica nella scelta del ritorno alle origini – sul leggio dell’orchestra LaCorelli la revisione sull’autografo della Scuola di Filologia dell’Accademia di Osimo a cura di Federico Agostinelli e Gabriele Gravagna. Integrale, nessun taglio alla partitura (lo spettacolo supera così le tre ore e mezza, con due intervalli a scandire la struttura della Tragédie-lyrique in tre atti) con tanto di ballabili alla fine del primo e del terzo atto – Parigi voleva così. Coreografie neoclassiche (ma a tratti anche con sprecature moderne) di Luca Silvestrini, riflessione sull’arte. Come è tutto lo spettacolo di Falaschi. Che rilegge la storia di Giulia… innamorata di Licinio, ma destinata a consacrarsi come Vestale, custode del sacro fuoco, colpevole di aver lasciato spegnere la fiamma nel tempio, condannata ad essere murata viva, ma salvata dall’intervento del suo amato e dal deus ex machina di Vesta che squarcia il suo velo e riaccende il sacro fuoco… rilegge la storia di Giulia sovrapponendola a quella della Callas, donna divisa tra l’urgenza di tenere vivo il sacro fuoco dell’arte e l’amore – sempre contrastato quello di Maria, autentico nel rapporto con Meneghini, tormentato nella relazione con Onassis che la usò, cimelio da esibire in società, lasciandola poi per Jackie Kennedy e piantandola attraverso i titoli di giornale…

Così Giulia è Maria. Da subito. Nella prima, potente immagine dello spettacolo. Sola. Elegantissima nel suo abito di velluto nero, nel filo di perle al collo (stesso abito, stesse perle che ha la Grande Vestale, alter ego di Giulia/Maria). Sola in una stanza dove le pareti sono di freddo marmo. Pareti che ci rimandano le immagini che passano nella mente di Giulia/Maria solo in un teatro vuoto, sola in una stanza d’albergo, solo in una vasca da bagno nella quale si immerge vestita. Sola in una società che non l’ha mai accolta per quello che era… Niente tribuni e matrone romane sul palco, nella scatola dei ricordi dentro la quale Falaschi ambienta la sua Vestale. Piuttosto una New York anni Sessanta (bellissimi i costumi, inconfondibili le acconciature…) fatta di intrighi, di apparenze… un mondo, raccontato con le atmosfere sofisticate di certo cinema (tutto lo spettacolo è in un elegantissimo bianco e nero), che si muove tra una festa e l’altra, tra un party e l’altro… magari  a tema “romano” dove gli invitati, sopra smoking e abiti lunghi, indossano lenzuola annodate come tuniche.

Giulia è Maria. Nelle gioie e nelle sofferenze delal vita – potente e commovente l’immagine di Giulia/Maria con un velo in braccio, come se fosse qul figlio che la vita ha negato alla Divina. Giulia è Maria. E Maria è Giulia. È stata Giulia. In teatro… e nella vita. Lo rievoca, lo ricorda in un mondo che la costringe a tenere vivo il fuoco dell’arte. Anche quando quel fuoco si è spento… anche quando la voce (unica quella della Callas… che prima che inizi la musica risuona, inconfondibile, emozionante per dire quanto Maria si sia data al pubblico e all’arte) l’ha abbandonata. L’amore, però, non basta. Licinio non basta. E l’arte è l’unico mondo nel quale rifugiarsi. Complesso e articolato il lavoro drammaturgico di Falaschi che di regia in regia acquista sicurezza e affina un linguaggio che non è solo estetica.

Poca estetica, intesa come stile, come appiombo sulle caratteristiche della partitura – siamo a inizio Ottocento, c’è stato Mozart e ci sarà il belcanto, la tragedie lyrique ha una sua storia ben definita – nella lettura che dal podio della Corelli offre Alessandro Benigni, un po’ confusa, non sempre dal sapore “antico” (ma la responsabilità, certo, non è tutta del direttore), meglio riuscita nei passaggi danzanti. Sul palco Carmela Remigo “fa” la Callas solo scenicamente, non sintonizzando la sua interpretazione su quella della Divina. Il soprano fa la “sua” Giulia, con la tecnica e il temperamento che da sempre mette nelle sue interpretazioni. Bruno Taddia è un Licinio “da manuale”, attento a mostrare disegnando il suo personaggio, proprio come in una lezione di canto e di arte scenica, cosa si deve fare sul palco. Squillo, presenza, gusto sono le carte vincenti che Joseph Dahdah usa per restituire il ritratto di Cinna. Efficaci la Grande Vestale di Daniela Pini (alter ego, anima che ricorda a Giulia/Maria il suo dovere nei confronti dell’arte) e il Gran Pontefice di Adriano Gramigni.

Il fantasma di Maria c’è. Fa svolazzare le tende. Ma non fa paura.

Nelle foto @Stefano Binci La vestale