Bologna, il West di Puccini insegna il perdono

La fanciulla del west inaugura la stagione del Teatro Comunale Riccardo Frizza sul podio, regia in cinemascope di Paul Curran Carmen Giannattasio debutta e convince nel ruolo di Minnie

D’accordo. È un western. C’è il saloon con il bancone ei tavoli (e quell’oro, nascosto in un barile) e ci sono i colpi di pistola – Minniie si presenta impugnando un fucile, «Hello, Minnie» la riconoscono i suoi e subito le liti si placano. E c’è una musica che è impregnata di cinema. Un raro (se non l’unico) esempio di western in formato opera lirica. Perché Giacomo Puccini era un uomo del suo tempo – la sua passione per i motori, lo racconta bene. Era un uomo del suo tempo, curioso dei fermenti artistici – parlando di western si parla naturalmente di cinema, che ha fatto del racconto della corsa all’oro uno dei suoi filoni più fortunati – che si muovevano intorno a lui in quel 1910 che ha visto debuttare al Metropolitan di New York (con le sforbiciate arbitrarie di Arturo Toscanini) La fanciulla del west. Impregnata di cinema, quello che in quel 1910 aveva già detto la sua con David Griffith che di lì a cinque anni avrebbe girato Nascita di una nazione.

Opera della maturità La fanciulla del west, più imparentata con il Trittico (il vero capolavoro pucciniano) che non con l’incompiuta Turandot. Modernissima, finisce in un diminuendo che scolora in un silenzio irreale che quasi ti fa trattenere dall’applaudire quando la ascolti dal vivo, mentre in disco ti lascia una senso bello di incompiutezza, come se qualcosa potrebbe succedere da un momento all’altro . Ma la Fanciulla è (anche) un western di quelli che hanno una morale, non è solo pistole e saloon. E che morale! Aspergimi di issòpo e sarò mondo. Lavami e sarò bianco come neve» canta Minnie insegnando la Bibbia, il Salmo 51, ai minatori della Polka perché «non c’è al mondo peccatore cui non s’apra una via di redenzione». Bellissima, commovente scena nel cuore del primo atto. Stessa frase che la fanciulla, quella del titolo ispirato a The girl of the Golden West di David Belasco, ripete ai suoi uomini prima di lasciarli per sempre per seguire l’amore. L’amore di un bandito, Ramerrez, pentito – redento dall’amore, che è quello di Minnie che racconta di un Amore più grande (lei bara a carte per salvargli la vita). Perché «non c’è al mondo peccatore cui non s’apra una via di redenzione».

Una parabola sul perdono. Una storia che ha sì un sapore cinematografico, ma ha dentro un germe wagneriano – i temi del compositore tedesco, quello della redenzione su tutti. Non solo. Ha dentro una radice straussiana, fatta di spatolate di musica e di racconti che, nel loro srotolarsi, ti suggeriscono una morale, poetica, come in Capriccio o Intermezzo, umana nella bellissima Frau ohne Schatten. Ti resta attaccato questo, ascoltando Fanciulla. Ti scrolli tutto il resto, la polvere che sembra depositata sull’allestimento (fin troppo) tradizionale di Paul Curran, e ti resta questa certezza. Che «non c’è al mondo peccatore cui non s’apra una via di redenzione». Modernissima, attuale in tempo di Giubileo. Ti resta questo alla fine de La fanciulla del west che inaugura la nova stagione del Teatro Comunale di Bologna. Abiti lunghi nonostante da qualche tempo la “casa” della fondazione lirica emiliana sia un padiglione fieristico, ribattezzato Comunale Nouveau, ma pur sempre con pareti di cemento. Sala addobbata in stile west con cactus e selle per cavalli, platea abbastanza piena (al Nouveau ci si arriva con il bus di linea, con il taxi, ma c’è anche chi anche pedala dal centro a piazza della Costituzione), ma guardaroba esaurito, subito sold out (le grucce forse sono meno delle sedie) con tanto di fila (ma questo succedeva regolarmente anche davanti ai banconi del Comunale) per recuperare cappotti e giacche a vento. Si torna nella sala del Bibiena, in piazza Verdi a fine 2026, i lavori procedono secondo la tabella di marcia. L’opera non si ferma. Concentrata in settimane intense di programmazione al Comunale Nouveau.

E intanto si continua, anche chiuso il 2024 che ci ha fatto fare una scorpacciata pucciniana nel centenario della morte del compositore, a celebrare Puccini. Con una Fanciulla riuscita. Difficile (certo, non impossibile, occorre un lavoro di drammaturgia…) immaginare un’altra cornice per il racconto pucciniano che non sia il West dei racconti cinematografici hollywoodyani (il west alla Sergio Leone, forse, avrebbe un altro sapore se usato per “raccontare” Fanciulla). Paul Curran (con le scene e i costumi di Gary McNann, pulite, essenziali, sulle didascalie del libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini) ricrea sul palco in cinemascope (lungo e schiacciato come quello di un grande schermo in una moderna sala cinematografica) del Nouveau un Far West di legno, con le stesse assi della Polka e della capanna di Minnie che alla fine – idea poetica e straniante – sono gli alberi della foresta che vedranno Minni e Dick cantare il loro «addio mia dolce terra, addio mia California».

Riccardo Frizza spegne questo canto – come vuole Puccini, autore che il direttore bresciano non frequenta così spesso – in un silenzio impalpabile. Una musica che “va a nero”. Che spiazza, perché non c’è nessun trionfalismo. C’è solo uno sguardo che si allunga sull’orizzonte. Che arriva dopo una lettura tesa del direttore bresciano, che ha assecondato il respiro cinematografico della partitura – che ha anche momenti di stanca – con una lettura tutta in attacco, muscolare, tesa. Un Puccini squadrato quello di Frizza, modellato più sulle “regole” del belcanto che su inquietudini e bagliori del Novecento. Forme nette, dinamiche inchiodate , impasto omogeneo lungo tutto il corso dell’opera piuttosto che una musica che si dilata per seguire il sentimento. Potrebbe essere una via per una (ri)lettura di Puccini. Ci vorrebbe, forse, un’orchestra maggiormente complice. Quella del Comunale è inappuntabile, ma sembra andare per conto proprio, non entrare mai veramente in sintonia con il podio.

Che, invece, respira con il palcoscenico. Dove Carmen Giannattasio vince nel suo debutto come Minnie: bella pasta, voce omogenea, acuti centrati (forse da lasciar sfogare ancora di più perché ci sono e sono belli) e presenza scenica efficace. Come Claudio Sgura, Rance tormentato, tutto in crescendo e ben cantato. Cavallo di battaglia del baritono pugliese che non disegna un cattivo dalle linee nette, ma fa di Rance uno Jago, uno Scarpia sottilmente insinuante che alla fine si mette da parte per lasciar trionfare l’amore. La legge, una volta tanto, cede alla vita. Qualche difficoltà in più per il Dick Johnson di Angelo Villari, comunque a fuoco e capace di venire a capo di una parte impervia. Paolo Antognetti è un ottimo Nick, il cameriere della Polka, mentre tra gli avventori (e sono tanti e dicono la complessità per un teatro di mettere in scena un’opera come Fanciulla) il più centrato è il Sonora di Francesco Salvadori. E se stridono, nel disegno complessivo, l’Ashby poco incisivo di Nicolò Donini e la Woekle di Eleonora Filipponi, si fanno invece notare il Joe di Cristobal Campos Marin, il Bello di Paolo Ingrasciotta e il Jake di Francesco Leone.

Minatori che alla fine perdonano. Personaggi di una parabola, attualissima, raccontata da Puccini a ritmo di western. In musica.

Nelle foto @Andrea Ranzio La fanciulla del west al Teatro Comunale di Bologna