Il direttore mialnese torna ad affrontare l’ultima opera di Verdi riproponendo lo storico spettacolo del 1980 di Giorgio Strehler
Non ti resta addosso il sorriso. Non ti resta attaccata la voglia di scherzare dopo che quel signore di mezza età (non è un vecchio… cosa che lo rende forse ancora più tragi-comico) che si è reso ridicolo da solo prima ancora che le comari (le comari di Windsor, Alice, Meg, Nannetta… come cantano nel folgorante incipit del secondo quadro del primo atto… c’è anche Quickly, naturalmente) prima ancora che le comari lo mettessero in ridicolo davanti a tutti… non ti resta attaccata la voglia di scherzare dopo che quel signore di mezza età ti butta in faccia che dato che «tutto nel mondo è burla» siamo «tutti gabbati».
Si accendono le luci in sala. Vedi il tuo vicino di posto. Ti vedi le mani. Ti vedi le gambe. Ti accorgi che quel signore di mezza età punta il dito verso di te. E la luce, dopo il buio della notte nel quale è immersa l’ultima scena, ti dà fastidio agli occhi. «Tutti gabbati». A beffarci è la vita. E non c’è niente da ridere. Così quella che ti resta addosso, uscendo dal Teatro alla Scala dopo aver ascoltato il Falstaff di Daniele Gatti – che è poi più di tutti i Falstaff il Falstaff di Giuseppe Verdi, nelle intenzioni, nell’essenza, nella verità che ti sorprende e ti sconvolge – quella che ti resta addosso è una malinconia strana, bella a tratti, che certo, però, non ti aspetteresti dalla «commedia lirica in tre atti» (così dice il libretto di Arrigo Boito ispirato a Shakespeare, a una commedia, Le allegre comari, ma anche a due drammi storici, l’Enrico IV e l’Enrico V) che è il capolavoro estremo di Verdi. La malinconia della vita. Malinconia che ti dice (ti conferma, perché forse già lo sapevi) che Falstaff non è un’opera comica. E forse non esiste un’opera (davvero) comica. Il sorriso di Rossini, Donizetti… il sorriso di Mozart (quanta mestizia nell’«or tutti contenti…» che chiude la folle giornata delle Nozze di Figaro) ha sempre un sapore malinconico.
Figuriamoci il sorriso di Verdi – l’unico vero flop del compositore è stata il suo primo e unico melodramma giocoso, Un giorno di regno per il quale chiese il libretto a Felice Romani, quello dell’Elisir donizettiano. Il sorriso dell’ultimo Verdi, del Giuseppe Verdi della maturità, che arriva dopo il viaggio negli abissi dell’uomo raccontato in Don Carlo e Otello – d’accordo, tutte le opere del compositore delle Roncole sono un viaggio negli abissi dell’uomo, dal Nabucco al Boccanegra – non può che essere malinconico. Così il Falstaff di Gatti – titolo che il direttore milanese ha proposto in tutti i teatri che ha guidato e che ora riporta alla Scala dopo averlo già diretto nel 2015 – è il Falstaff più verdiano di tutti. Il Falstaff più verdiano di tutti i Falstaff. Per il direttore più verdiano di tutti (certo, ci sono Riccardo Muti che proprio al Piermarini ha segnato la storia dell’interpretazione verdiana, e c’è quel James Levine, ormai nella tomba, condannato all’oblio per le nefandezze di cui venne accusato, ma interprete verdiano come pochi…). Verdiano perché restituisce il “testo” del compositore in un modo sempre nuovo e sorprendente. Non in una semplice riproposizione musicalmente quadrata, perfetta (ma con il rischio di essere troppo asciutta e distante dal cuore) come capita spesso con il meccanismo perfetto che è Falstaff. Gatti la restituisce piuttosto nel suo essere carne e sangue, impregnata di vita. Moderna, perché parla al presente.
E il nostro presente è fatto (anche) di adulti che faticano a fare gli adulti. Di giovani che a volte sembrano più maturi dei loro genitori – nelle istanze sociali e civili che portano avanti. E di chi nonostante tutto non smette di interrogarsi sulla vita, Falstaff. Il Falstaff di Gatti non è una caricatura o una macchietta. Nessun eccesso, niente di sguaiato o volgare – lo chiede Gatti ad Ambrogio Maestri che asciuga la sua interpretazione, nata “asciutta2 con Muti e arricchitasi nel corso del tempo, di venticinque anni di Falstaff sui palcoscenici di tutto il mondo… qui con Gatti Maestri torna alle origini. niente di sguaiato o volgare come risulterebbe facile per strappare un applauso o catturare una risata. E capita spesso, anche in musica, ahimè. Perché Verdi, a dispetto di quello che può sembrare, nella sua ultima opera non si fa beffe del mondo con la «risata finale», ma ancora una volta prova a raccontare, in musica, qualcosa di noi. E nel Falstaff di Gatti ci siamo noi. Uomini fragili. Tanto che la voce di Ambrogio Maestri, che non teme di mostrare i segni del tempo depositati sul suo Falstaff (i falsetti a volte sono difficoltosi, il canto spesso è spoggiato, l’intonazione a tratti vacilla… ma nel corso delle repliche molto si è messo a posto), comunque commuove per verità e immediatezza.
Sguardo disilluso sul mondo quello di Falstaff. Come quello della Marescialla del Rosenjavalier di Richard Strauss. Perché sono tanti – e te ne accorgi bene ascoltando il Falstaff di Gatti, che arriva a una manciata di mesi di distanza dal Rosenkavalier scaligero di Kirill Petrenko – sono tanti gli intrecci e i rimandi tra le due opere, quella di Verdi è del 1893, il capolavoro di Strauss è del 1911. Una donna di mezza età, la Marescialla Marie Therese, che esorcizza il passare del tempo divertendosi con un ragazzino, Octavian che poi spinge tra le braccia di Sophie… un uomo di mezza età, Falstaff, che credendosi ancora capace di sedurre come «quando ero paggio» tenta l’avventura con due donne maritate (ma sarà amore è perché Alice, come Meg, «tien le chiavi dello scrigno»?), ma poi si pente e diventa lo strumento per il trionfo dell’amore puro e innocente di Nannetta e Fenton, «Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnova, come fa la luna…». Verdi fa finire la burla con la mascherata alla quercia di Herne… Ochs nel Rosenkavalier è sbugiardato in una mascherata viennese che trascolora nel Spür’ nur dich, spür’ nur dich allein
und daß wir beieinander sein! di Octavian e Sophie. «Sento te sola, te sola sento e sento che ora siamo uniti». Bello, ma malinconico – avvolto dalla musica struggente di Strauss. Come il «fil d’un soffio etesio» che culla Falstaff sotto la quercia di Herne. E che Gatti rende trasparente, fragile perché prezioso, con la voce che è una carezza di Rosalia Cid.
Così a restarti dentro è il colore malinconico e inquieto che serpeggia da subito, dallo sconquasso musicale che apre il sipario. Sono le nebbie (in perfetto appiombo con lo storico allestimento di Giorgio Strehler, completamente ricostruito per questa ripresa e sempre poetico nei controluce che lo abitano, inconfondibile marchio di fabbrica del regista) sono le nebbie sinfoniche che avvolgono il racconto musicale. È il suono impalpabile dei contrabbassi che aprono il terzo atto, nasce dal nulla. Sono le voci delle comari che in lontananza si danno appuntamento alla quercia di Herne mentre la notte scende nella musica. Un buio rischiarato dal «canto estasiato» di Fenton. Dal «fil d’un soffio etesio» evocato da Nannetta. Dall’amore di due giovani ai quali Verdi, nel suo estremo capolavoro, consegna (e ci consegna) la speranza nel futuro.
E così Falstaff, il Falstaff di Gatti, è il più verdiano di sempre. Malinconico, ombroso. Come i chiaroscuri (i controluce che Marco Filibeck ricreane puntualmente) nei quali Strehler immerge il suo spettacolo. Nato nel 1980, per un 7 dicembre. Tornato più volte, poi venduto al Bolshoi di Mosca. Ora completamente ricostruito (la regia la riprende Marina Bianchi, le scene di Ezio Frigerio sono rinate con la supervisione di Leila Fteita, mentre il premio Oscar Franca Squarciapino è tornata a dare il suo inconfondibile tocco ai costumi del marito, scomparso nel 2022) per questa ripresa. Forse con un filo di poesia in meno, ma sempre malinconico e ombroso. Come lo è il Falstaff di Gatti. Rivelatore di quanto Verdi, il Verdi ottantenne che scrive la sua ultima opera, fosse immerso (e consapevolmente) nei fermenti musicali del (suo) tempo. Debitore (mai si era sentito così netto) nei confronti di Otello. Tutto interiore. Un Falstaff intimo. Perché raccontato quasi sottovoce (i volumi, le dinamiche ci sono tutti) in un impasto sinfonico di musica e canto, dove le voci sono strumenti al pari di quelli dell’orchestra.
Ambrogio Maestri centra in pieno la tragica e malinconica scanzonatezza di Falstaff, lo fa con una voce segnata dal tempo (il baritono pavese, dal suo debutto scaligero proprio in questo Falstaff, voluto da Riccardo Muti, ha cantato tanto, di tutto e dappertutto…), ma che ha ancora quel graffio di emozione che non può lasciare indifferenti. Rosa Feola, che nell’ultimo Falstaff scaligero era Nannetta (personaggi che le starebbe ancora benissimo) fa il salto e si confronta, con la sua intelligenza musicale e con la sua voce sempre a fuoco, con Alice – ma qui il personaggio non le sta (ancora) come un abito su misura. Luca Micheletti è un teatralissimo Ford, viene dal teatro il baritono e da un certo tipo di teatro, artigianale, poetico, figlio della grande tradizione della commedia dell’arte… e nel Falastaff strehleriano ci sta benissimo. Rosalia Cid è una bella e musicale Nannetta, sempre in sintonia con la scrittura verdiana. La migliore di un cast dove c’è il sempre efficace e affidabile Juan Francisco Gatell come Fenton e dove Marianna Pizzolato è una (inaspettatamente) misurata Quickly. Martina Belli, voce piena e omogenea, fa di Meg un personaggio tutt’altro che secondario. Così come fa Antonino Siragusa, tenore rossiniano da nome in locandina, che qui si misura con il “carattere” del Dottor Cajus. Il Bardolfo di Christian Collia e il Pistola di Marco Spotti appaiono, invece, fuori fuoco rispetto al disegno complessivo del Falstaff di Gatti.
Un Falstaff intimo. Perché misuratissimo e raccontato quasi sottovoce. Come una confidenza che si fa a un amico speciale al quale si vuole provare a dire il segreto della vita.
Nelle foto @Brescia/Amiasno Teatro alla Scala Falstaff