Il dramma degli abusi nella prigione di Fidelio

Il soprano Evelyn Herlitzius debutta come regista mettendo in scena a Wiesbaden l’opera di Beethoven Dirige Will Humburg, protagonista Barbara Haveman

Fidelio, il Fidelio di Ludwig van Beethoven, lo sappiamo, è una storia di soprusi. Storia di diritti umani violati da parte di un potere politico (molto vicino alla tirannia) che imprigiona, che toglie la libertà. Che toglie la vita (o prova a farlo, senza riuscirci, perché, poi, l’amore coniugale trionfa in un lieto fine che lascia, però, tanto amaro in bocca)… Un potere che toglie la vita , la parola, annulla il pensiero per far tacere il dissenso. Per mettere un bavaglio a chi grida il proprio desiderio di libertà. Storia politica, una brutta politica, penseresti. Storia come tante che abbiamo conosciuto quando è la tirannia a reggere le sorti di una nazione. Ma poi, nel Fidelio di Wiesbaden, nuova produzione dell’Hessisches Staatsterather, ci sono due occhi, gli occhi di Pizarro che si posano su Marzelline. Inquietanti. Spudorati. E la storia non è più (solo) politica. Non è più (solo) una storia di soprusi e di diritti umani violati.

Perché, mentre il primo atto sfuma nel nero, c’è lui, il governatore della prigione, fermo immobile, le mani nelle tasche del cappotto, a puntarle gli occhi addosso. E lei, la figlia del custode del carcere, di fronte al tiranno, piccola e fragile, la testa china a guardare a terra, una gonna scozzese a pieghe, calze al ginocchio, camicia bianca, una giacca blu da collegiale, spogliata, violata nel suo corpo, violentata senza pudore dallo sguardo prepotente di Pizarro. Uno sguardo, quello penetrante del governatore, che racconta abusi inconfessabili. Accaduti. Subiti. Ripetuti. Mentre la musica di Beethoven, sul finale del primo atto, assomiglia ad una carezza. E rende la scena ancora più urtante. Sinistra.

Fidelio, una storia di diritti umani violati, a Wiesbaden, sul palco dell’Hessisches Staatsterather, diventa una storia di abusi. Una storia (e quanto fa male dirlo!) come tante. Che si ripetono uguali. Abusi che avvengono nell’ombra. E anche quando sono scoperti e denunciati e puniti non insegnano nulla. Perché si ripetono (ancora) uguali. E ogni volta scandalizzano. Ma ogni volta vengono presto dimenticati. Lo dice quello sguardo. Lo dicono quegli sguardi che sul finale del singspiel, mentre Leonore spezza le catene del marito Florestan, si posano su Marzelline: gli occhi, gli sguardi degli uomini (di altri uomini che non sono Pizarro, giustamente punito) violano il corpo di Marzelline e la costringono (come se fosse nuda, seppur vestita con una gonna scozzese a pieghe, calze al ginocchio, camicia bianca, una giacca blu da collegiale) a fuggire, a uscire dal quadro, dalla cornice del racconto (che è il boccascena) e a provare a rifugiarsi tra noi che siamo in platea. Che abbiamo visto (e si spera compreso) assistendo a questa storia di abusi quanto male può fare uno sguardo.

Messaggio potente che Evelyn Herlitzius mette nel suo Fidelio, titolo scelto dal soprano tedesco (affascinante voce straussiana e wagneriana, insuperabile nei ritratti dolenti e inquieti delle donne di Janáček) per il suo debutto nella regia sul palco dell’Hessisches Staatsterather di Wiesbaden. Dove va in scena un Fidelio intenso, grazie alla lettura registica – impostazione tradizionale pur nello spostamento temporale in avanti – della Herlitzius e a quella musicale di Will Humburg, genio e sregolatezza del podio, musicista straordinario nel restituire tutta la bellezza e l’inquieta modernità dell’unica opera scritta da Beethoven – al direttore d’orchestra di Amburgo basta uno sguardo fugace alla partitura (più volte gira automaticamente le pagine, saltando interi blocchi che ha diretto a memoria), perché ha in testa tutto l’arco narrativo, tutta la perfetta architettura dell’opera che inizia con toni mozartiani e che presto si colora di dramma e che culmina in un inno alla libertà, calco perfetto del finale della Nona beethoveniana.

Un dramma dentro il quale la Herlitzius ci tira dentro da subito, una storia di abusi nella quale la regista (con il suo sguardo femminile) ci fa piombare sin dalle prime note dell’ouverture – sul leggio di Humburg l’Ouverture in mi maggiore, quella scritta da Beethoven per la ripresa di Fidelio del 1814 (e che bello sarebbe stato ascoltare anche la Leonore n.3 nel cambio di scena del secondo atto…). Perché subito (in un video che accompagna le note dell’ouverture) siamo “violati” anche noi da uno sguardo. Interrogati da due occhi, quelli di Leonore che ci penetrano nell’anima. Donna violata anche Leonore, anche lei vittima di Pizarro, lo vediamo in questo antefatto, dopo che Leonore e Florestan si sono giurati amore eterno scambiandosi i loro ritratti appesi ad una catena d’oro… un tentativo di violenza (sotto gli occhi di tutti, a un tavolo dove si festeggia la promessa d’amore) respinto dalla donna. Tanto che ti viene il sospetto che l’arresto di Florstan e la sua condanna a morte sia una vendetta, un abuso, e non una mossa politica, come nel libretto di Joseph Sonnleitner, Stephan von Beruning e Georg Friedrich Treitschke ispirato a Leonore ou l’amour conjugal di Jean-Nicholas Bouilly.

Ci sono uomini in divisa, con la scritta justiz. In divisa anche Leonore, che si finge uomo, con il nome di Fidelio, per trovare (e provare a liberare) il marito. Ma niente ambientazione spagnola, come nel soggetto a cui Beethoven si è ispirato, però nello spettacolo della Herlitzius. Piuttosto una prigione di oggi (il dramaturg è Constantin Mende), fatta di tante piccole celle che assomiglia al Presidio modelo, al carcere modello cubano di Nueva Gerona. Luogo dove i diritti umani sono azzerati, dietro la maschera della “prigione modello” – e in occasione di Fidelio l’Hessisches Staatsterather di Wiesbaden rilancia l’attività di Amnesty international. Siamo in una qualsiasi città tedesca. In una prigione dove le mogli dei detenuti premono per vederli. Un’umanità varia. Fatta di immigrati. Fatta di piccoli criminali locali. Tutti incasellati in quella struttura claustrofobica (scene e costumi sono di Franck Philipp Schlossmann, le luci di Andreas Frank) che si affaccia su un cortile dove Rocco griglia i wurstel, dove Marzelline, sfogliando una rivista di abiti da sposa, sogna di essere portata all’altare da Fidelio, quell’uomo premuroso, arrivato all’improvviso che non l’ha mai violata con il suo sguardo (a differenza del promesso sposo Joaquino e di tutti gli altri), ma che è sempre stato capace di farla sentire preziosa, di custodirla… come fa il padre Rocco.

Preziosa, come l’amore. Da (ri)cercare, da custodire. L’amore di Florestan. E parte da qui, dal cortile della prigione, la discesa agli inferi di Leonore. Che, come Orfeo (ma qui le parti sono invertite, è la moglie che cerca di riportare in vita il marito, mentre nel mito è il musico che vuole strappare al regno dei morti la sua sposa) sfida le leggi (degli uomini o degli dei, poco importa, perché quando scrivono certe regole capita che gli uomini si sentano dei…) e riesce a restituire la vita al marito. La Herlitzius racconta la vicenda come un lungo piano sequenza cinematografico, ci fa scendere nei sotterranei della prigione, ci immerge nel buio del carcere di Florestan per poi riportarci alla luce del cortile della prigione. Liberata dal tiranno Pizarro. Ma carcere per Marzelline. Che non accetta che il Fidelio di cui era innamorata è Leonore, una donna. Non accetta, forse capisce. E le regala la sua rivista di abiti da sposa… gesto di speranza, grido disperato di fiducia nel futuro (nonostante tutto), prima di fuggire dalla “storia”.

Che non ha, dunque, un lieto fine. Nonostante la musica di Beethoven sia trionfale, celebri la libertà e l’amore. La dirige Will Humburg che, come un rabdomante, cava un suono bello e pieno (tedesco, sì, ma anche dalle ombreggiature mediterranee inaspettate) da un’orchestra (disciplinatissima e con ottimi musicisti) piccola… tre violoncelli, tre contrabbassi… Un racconto teatralissimo quello che il direttore fa dal podio, capace di far crescere la tensione con il procedere dei numeri musicali (tensione che regge bene anche nei dialoghi, asciutti ed efficaci) e di passare senza salti bruschi dalla commedia al dramma.

Tensione (e fascino del racconto) che arrivano anche grazie al cast. Barbara Haveman è un’intensa Leonore, voce piena, corposa quella del soprano tedesco che disegna il ritratto di una donna appassionata, caparbia nel perseguire il suo obiettivo di ritrovare il marito Florestan. A cui presta il suo bel timbro Marco Jentzsch (la scrittura di Beethoven è ai limiti, quasi impossibile da sostenere, ma il tenore vince la sfida), interprete convincente nella fragilità di un uomo piegato dai lunghi mesi di prigione. E di buio. Quel buio fisico (siamo immersi nelle tenebre in apertura di secondo atto, solo pian piano arriva uno spiraglio di luce…) che è anche il buio della mente di Pizarro, che KS Thomas de Vries riveste (con la sua voce tagliente e la sua figura sghemba) di una sottile perfidia, di un inquieto sadismo che non può non metterti un brivido – ma anche esercitare un certo fascino, il fascino sinistro del male. Incisivo (e stranamente viscido) il Jaquino di Ralf Rachbauer, risolutore (come deve essere nella storia) e ben cantato il Don Fernando di Benjamin Russell. Rocco è un eccellente Dimirty Ivashchenko (il migliore in campo) grazie a una voce bella, timoratissima e musicalissima, che il basso usa con grande sapienza interpretativa (e intelligenza tecnica) per dare corpo alla pietà del carceriere, una pietà asciutta, schiva, di chi non deve fare proclami per dire la propria bontà. E per questo umanissima e toccante. Così come umanissima e toccante è la Marzelline di Anastasiya Taratorkina, fisico esile, piccolo e fragile, voce di cristallo, mozartiana, venata della malinconia di chi guarda alla vita con il disincanto (quasi una disillusione) di chi ha sofferto (e soffre) e sa dare (almeno prova a farlo) il giusto peso alle cose.

Sino a che quello sguardo, quegli sguardi la costringono a fuggire dalla cornice (dove, con lo stesso banchetto che abbiamo visto nel video sulle note dell’ouverture, si celebra l’amore coniugale, ma tra facce meste). A fuggire da una storia nella quale non si riconosce più. E a provare a scendere in platea, per guardarla (e guardarsi) dal di fuori. Insieme a noi. Che abbiamo visto (e si spera compreso) assistendo a questa storia di abusi che è Fidelio (raccontato così da Will Humburg e Evelyn Herlitzius) quanto male può fare uno sguardo. Ce lo chiedono gli occhi di Leonore. Che tornano, giganti sullo schermo, mentre la musica si spegne. Occhi che tronano a fissarci. Interrogando la nostra anima.

Nelle foto @Lena Obst Fodelio all’Hessisches Staatstheater di Wiesbaden