Scala, Fedora si perde in un quadro di Magritte

Delude l’allestimento di Martone dell’opera di Giordano che il regista trasporta nel mondo surrealista del pittore Sonya Yoncheva e Roberto Alagna diretti da Armiliato

Grigio. Azzurro polvere. Bianco sporco. Senti freddo, un freddo dell’anima, raggelata in un’immobilità (fisica e mentale) dove tutto sembra morto – come in un quadro di René Magritte, natura morta (fisica e mentale) anche se popolata da persone, perché quegli uomini in bombetta e quelle donne con il viso fasciato da un velo sembrano, appunto, già tutti morti nella loro inquietante, fissa bidimensionalità (fisica e mentale). Senti freddo, un freddo dell’anima nella Fedora di Umberto Giordano che Mario Martone ha riletto per il Teatro alla Scala, ribaltandone l’essenza di romanzo d’appendice in musica, raccontandola in modo completamente opposto rispetto alla soap opera lirica che di solito si vede/ascolta (e che i melomani, diciamocelo, vogliono vedere/ascoltare… le Olivero, le Freni… insuperate in questo). Freddo, quello che senti, perché Martone mette davanti ai personaggi (e agli ambienti e alle situazioni) dell’opera di Umberto Giordano (la prima nel 1898 al Lirico di Milano) la lente di ingrandimento del surrealismo. Uomini in bombetta, donne con il viso imprigionato da un velo. Ambienti asettici. Dove vivisezionare (come su un tavolo anatomico) il sentimento.

Grigio. Azzurro polvere. Bianco sporco. Effetto (non solo coloristico) straniante perché spazza via (scelta drammaturgica ben precisa, che, però fatichi a leggere chiara nella sua profondità lungo il corso dell’opera) i salotti di San Pietroburgo e di Parigi e le ville ai piedi delle montagne della Svizzera di fine XIX secolo (epoca in cui il librettista Arturo Colautti colloca la vicenda, rifacendosi al dramma di Victorien Sardou, lo stesso della Tosca, dunque intrigo e amore assicurati) per sostituirli con visioni (alla Magritte, appunto, come dichiarato esplicitamente dal regista napoletano di Nostalgia) che raggelano la vicenda in una sorta di limbo. Un al di là che è anche un po’ al di qua dove convivono i personaggi e i fantasmi che li perseguitano, dove vivi e morti abitano gli stessi luoghi, vestono allo stesso modo. Compiono gli stessi gesti. Geometrici, essenziali. Asciutti. Che non tradiscono (e non comunicano) nessun sentimento. Perché quella di Martone è una Fedora asciutta, geometrica, essenziale, dove il sentimento (scelta voluta?) è bandito. Vivisezionato per vedere, chirurgicamente, cosa lo provoca, quale è la sua essenza. Operazione a cuore aperto dove il cuore, però, non deve battere. Persino nel finale, di fronte al quale di solito si fatica a trattenere le lacrime – lacrime che scendono anche solo rileggendo la storia per ripassare la trama prima che si alzi il sipario o ricordando a memoria alcune frasi iconiche del libretto. Finale immerso dal regista in un nero totale con al centro della scena vuota solo Loris e Fedora morente.

Effetto assicurato. E il pensiero va alla Cavalleria rusticana che Martone ha messo in scena proprio alla Scala, spazzando via la Sicilia caricaturale e macchiettistica, per concentrarsi sul cuore del dramma (di Mascagni e di Verga). Operazione che allora funzionava, ma che ora, applicata a Fedora, ti lascia una sensazione di incompiutezza. Come se Martone, ma anche gli interpreti, che sono Sonya Yoncheva e Roberto Alagna, e il direttore d’orchestra, che è Marco Armiliato, non credessero davvero nell’operazione “Fedora in un quadro di Magritte”, ma soprattutto nell’opera di Giordano. Che, forse, va restituita senza paura e senza intellettualismi per quello che è, un romanzo (più o meno) storico in musica. Il regista, che ha firmato eccellenti film “in costume”, qui sceglie la via dell’astrazione, per “nobilitare” una musica (e una vicenda) che potrebbe suonare (forse) troppo pop. Di più. Sembra quasi che Martone, reduce dalle contestazioni di giugno al suo Rigoletto vedriano tra gli ultimi di Parasite, (scelta discutibile, ma che tutto sommato funzionava), abbia rinunciato (in corso d’opera? già a inizio del progetto che era nato prima del Covid, ma che è approdato solo ora sul palcoscenico?) a fare una regia: niente scavo psicologico, niente indagine sui rapporti tra i personaggi, niente “dimostrazione” attraverso il racconto della sua “idea” di Fedora. I personaggi (meglio, forse, dire gli interpreti) sembrano catapultati lì per caso (e questo, forse, non è solo da imputare alla regia…), fanno cose a caso (oltre ad arrancare sul canto con ripetuti ed evidenti errori sul testo), sembrano persi in un quadro senza sapere dove collocarsi.

Aggrappati, loro e Martone, al fascino della cornice. Che pure nel primo atto funziona bene, perché il regista sceglie la strada della narrazione cinematografica, scandendo la vicenda come un poliziesco, un noir psicologico ambientato ai giorni nostri nell’attico di grattacielo con vista notturna su altri grattacieli, dove Fedora è una donna fatale alla Greta Garbo (che scopre la coscia mentre canta, sul letto del suo Vladimiro, Grandi occhi lucenti), dove gli ispettori di polizia con l’immancabile impermeabile incutono terrore alla servitù schierata per gli interrogatori di rito. Poi arriva Magritte. Arrivano le citazioni: L’impero delle luci, Gli amanti e L’assassino minacciato. Tutto si astrae. Diventa rarefatto. Grigio. Azzurro polvere. Bianco sporco. E qualcosa si inceppa. Il ritmo cade. Il racconto zoppica tra (improbabili) balletti della servitù nella scena di Parigi, fantasmi che si materializzano a contrappuntare in modo didascalico la narrazione, slitte che a inizio del terzo atto fanno capolino dal sipario, croci che sul finale calano dall’alto (certo, a evocare la croce che Fedora porta al collo, dentro la quale c’è il veleno che beve per uccidersi) e subito spariscono in graticcia senza un perché. Le scene (non così riuscite) sono di Margherita Palli, i costumi, filologicamente da poliziesco, di Ursula Patzak, le luci (ma spesso gli interpreti entrano in coni di buio) di Pasquale Mari e le coreografie (compreso un passo di break dance) di Daniela Schiavone. Un mix che non aiuta il racconto – e alle uscite finali molti dissensi per Martone e la sua squadra..

Funziona, invece, il racconto musicale che dal podio fa Marco Armiliato. Preciso, puntuale nel non perdere mai il palcoscenico, riconducendo sempre il canto nei binari della partitura. Appassionato nel restituire i giusti colori della partitura di Giordano, specie nei momenti “sinfonici” dell’opera, come l’Intermezzo che spezza in due il secondo atto. E che segna il cambio di passo di Roberto Alagna, Loris dapprima sulla difensiva – l’Amor ti vieta d’esordio tradiva l’emozione del ritorno alla Scala dopo sedici anni per il tenore italo-francese che se ne era andato sbattendo la porta nel bel mezzo della prima replica dell’Aida inaugurale del 2006, perché “beccato” dal loggione dopo il suo Celeste Aidapoi sempre più appassionato e dentro la parte: Alagna ha la voce bella di sempre (certo, screziata dal tempo e dai tanti personaggi cantati) e una tecnica che gli consente di aggirare con mestiere gli ostacoli della parte. Cosa che fa anche Sonya Yoncheva alla quale, però, sembra non calzare il personaggio di Fedora: gli acuti ci sono (belli e luminosi), ma quello della principessa è un personaggio (e una scrittura) che scende nel profondo, territorio dove la Yoncheva (al netto dei soliti “callasseggiamenti”) si perde (con l’aggravante che spesso il testo non arriva limpido e intellegibile).

Cosa che non fanno (il perdersi) Serena Gamberoni (voce bella, facilità di canto che le consente di girare in bicicletta sul palco mentre lancia i suoi acuti) che è un’affascinante (anche per il suo essere annoiata dalla vita) Olga e George Petean, un preciso e mai ridondante De Siriex. Come lo sono, precisi e puntuali e mai caricaturali, tutti i “comprimari” (e qui sono tanti) che disegnano piccoli ritratti umani: il Dmitri di Caterina Piva, il Desiré di Gregory Bonfatti, il Barone Rouvel di Carlo Bosi, il Borov di Gianfranco Montresor, il Gretch di Romano Dal Zovo, il Lorek di Costantoino Finucci e, soprattutto, il Cirillo di Andrea Pellegrini, eccellente nel suo racconto dell’omicidio di Valdimiro. Cecilia Menegatti, voce bianca scaligera, sfila in proscenio, canta una Montanina sghemba e inquieta, un canto per nulla consolatorio, che non mitiga il clima di morte che incombe. E che immerge il tutto in un clima sospeso. Surreale. Freddo. Come un quadro di Magritte. Grigio. Azzurro polvere. Bianco sporco.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Fedora