Il regista (e sovrintendente tedesco) Uwe Eric Laufenberg rilegge con un taglio cinematografico l’opera di Verdi Dirige Humburg, Ioan Hotea eccellente Duca di Mantova
Siamo tutti buffoni. E non per forza in senso dispregiativo. Cosa che potrebbe anche starci, intendiamoci, dato che quella di Rigoletto (quella raccontata da Victor Hugo nel suo Le roi s’amuse, ma soprattutto quella messa in musica da Giuseppe Verdi) è una delle storie più beffarde e irriverenti del melodramma, la storia del buffone di corte che vuole beffare (uccidendolo) il Duca di Mantova, ma che resta tragicamente beffato da lui, ritrovandosi alla fine con la figlia morta tra le braccia. Siamo tutti buffoni. Qualcuno non manca di ripetercelo – anche in queste settimane post elettorali – con una (presunta) superiorità morale che lascia il tempo che trova. E (forse, ma diciamolo a bassa voce) potrebbe anche starci dato che sono tanti, tantissimi i Duca di Mantova che ci circondano, lo vediamo, anche senza bisogno di scomodare il bunga bunga come nella bibliografia del programma di sala del Rigoletto (allestimento datato 2019 ripreso in questa stagione) dell’Hessisches Staatsterather di Wiesbaden (Germania, Bundesland dell’Assia) che citando Silvio Berlusconi va a ripescare un articolo della Bild del 2011 «Bunga Bunga vor Gericht», perché è così che ci vedono (ci vedevano?) all’estero.
Siamo tutti buffoni. Tragicamente buffoni, ci dice, invece, il regista (che è poi l’Intendant di Wiesbaden) di questo Rigoletto, Uwe Eric Laufenberg. Buffoni con quella faccia che dietro un sorriso bianco e rosso, forzatamente disegnato sul viso, celano un malessere, che fa ridere fuori e soffrire dentro. Buffoni che portano sulle spalle un peso enorme, quello del pregiudizio. E della cattiveria. Della crudeltà del mondo. Che ha il volto, la corpulenza, la ferocia dei cortigiani «vil razza dannata» (che, capita, diventino a volte buffoni tragici). Immagine spiazzante, ma efficacissima (siamo pur sempre in Germania, terra di Dramaturg e Dramaturgin) con la quale Laufenberg racconta Rigoletto e i cortigiani nel secondo atto, quello che segue senza intervallo (… sempre perché siamo in Germania, terra di Dramaturg e Dramaturgin) il rapimento di Gilda. Tanti pupazzi che hanno lo stesso volto dipinto di bianco e rosso, lo stesso costume da clown bianco del circo (ma anche un po’ da It di Stephen King) del pupazzo brandito nel primo atto, alla festa, da Rigoletto, per dire dietro una maschera comica la tragica verità. Tanti buffoni che portano sulle spalle i cortigiani (bello il gioco dei costumi di Andrea Schmidt-Futterer che offre l’illusione dei cortigiani portati in spalla dal clown) contro i quali Rigoletto si scaglia, quella «vil razza dannata» alla quale, però, chiede «perdono, pietà, ridate a me la figlia».
Figlia che, lo sappiamo (perché il libretto di Francesco Maria Piave ce lo fa intuire con un delicato pudore poetico, «Ah l’onta padre mio. Arrossir voglio innanzi a voi soltanto»), è nel letto del Duca. Anche se Laufenberg ci tiene a mostrarcelo. Chiaro ed evidente – anche con il sangue che macchia la sottoveste candida di Gilda. Perché tutto è marcato in questo spettacolo, sottolineato tre volte come in un quadro espressionista in una regia che, comunque, non tradisce il senso dell’opera verdiana. Una delle più feroci di Verdi. Un’opera che racconta la crudeltà di un mondo dove i sentimenti sono al bando e dove ci sono (dove sembrano esserci) sono finti, plateali. Esibiti. Tutto è teatro. Tutto è rappresentazione. Così nel salone delle feste, dove donne/oggetto vestite da cameriere fetish fanno da piedistallo di un tavolino o da poltrona sulla quale il Duca si sdraia, un grande sipario si apre e si chiude sulla stanza del piacere. Così la casa di Rigoletto è solo facciata, una grande facciata sulla quale si aprono tre finestre attraverso le quali spiamo il mondo incantato di Gilda, fatto di tappezzerie a fiori e bambole di pezza sistemate sul letto. Così la sponda del Mincio dove c’è la casa diroccata di Sparafucile è un campo rom (Maddalena riceve i clienti in una roulotte) che sta dentro le mura del salone del Duca, al di là di quel sipario rosso, palco dove avviene, sembra dire il regista, la rappresentazione (tragica) dell’uccisione di Gilda. Infilata in un cassonetto della spazzatura dove la trova il padre. E dal quale uscirà incamminandosi, con la sua sottoveste bianca, verso il nero del retropalco (o verso un’altra stanza del Palazzo). Anima che si libera dal corpo. O, forse, personaggio in cerca d’autore, pronto a diventare, ancora una volta vittima del Duca.
Un campo lungo, questo finale, perché Laufenberg offre un respiro cinematografico al suo racconto. Lo fa nella festa del primo atto, raccontando con atmosfere pasoliniane la festa. Lo fa nel passaggio tra il primo e secondo atto quando, dopo che Rigoletto ha invocato per la prima volta «la maledizione», sulla “scena del delitto”, sotto le finestre che hanno visto i cortigiani rapire Gilda, appare il Duca che constata con i suoi occhi come «Ella mi fu rapita» e come «schiuso era l’uscio e la magion deserta». Per poi chiedersi, mentre cala il sipario nero che ci fa fare un salto spazio-temporale (lo dobbiamo ripetere ancora che siamo in Germania, terra di Dramaturg e Dramaturgin? in questo caso una Dramaturgin, Katja Leclerc) «e dove ora sarà quell’angiol caro?». Affascinante, certo. Cinematografico, indubbiamente. Un po’ forzato rispetto al testo. Ma funziona. E affascina, indubbiamente. Come quel mondo degli ultimi, il campo rom del terzo atto che ti fa pensare a Wim Wenders, chiuso tra quattro mura. Dove avviene la tragedia. E dove, dal cassonetto, rispunta il fantoccio del buffone.
Lo guarda, impotente, Rigoletto. Prima di ripiegarsi su se stesso, di gridare ancora una volta «Ah… la maledizione», ricacciando indietro l’imprecazione, in un urlo soffocato in gola perché Verdi, che nella sua partitura è già regista e Dramaturg, non scrive un acuto, non vuole un finale ad effetto, ma vuole il teatro, vuole la parola che si impasta con la musica per raccontare il dramma che gli interessa raccontare – e per questo difende il suo soggetto, quello di Rigoletto che va in scena a Venezia nel 1851, dalla tagliola della censura. Lo senti nella sua musica, nel suo teatro che a Wiesbaden arriva grazie alla lettura serrata di Will Humburg, tedesco di Amburgo, braccio solido per tenere le fila del racconto musicale tra buca e palcoscenico (anche nel far andare l’orchestra a tempo con la banda fuori scena che è registrata e arriva in sala attraverso altoparlanti). Un racconto dal respiro ampio, una grande campata musicale ed emotiva quella che Humburg, che padroneggia benissimo la partitura, propone dal podio. Una lettura dove il tema della maledizione continuamente emerge in controluce, tra passi più spensierati (certi “rubati” nel «Questa o quella per me pari sono») e invettive drammatiche (il «Cortigiani» arriva tagliente, disturbante nella sua secca freddezza), tra momenti lirici (il «Caro nome» che è una carezza) e squarci carichi di sensualità (la carnale «Donna è mobile», che arriva nelle tre ripetizioni con tre sfumature diverse grazie alla bellissima voce di Ioan Hotea, e lo straniante «Bella figlia dell’amore», in perenne bilico tra amore e vendetta).
Merito di Humburg. Merito di un cast affiatato (e siamo in un regime di teatro di repertorio, che si fa per tre sere ad ottobre, per altre tre a novembre e poi si ritorna in scena a febbraio) capitanato da Ioan Hotea, voce bellissima, piena di luce, cha ti avvolge di morbidezza. Una voce alla quale (l’impressione che si ha ascoltando il tenore rumeno) viene tutto facile, tra acuti limpidi e svettanti, centri timbratissimi, pianissimi affascinanti. Un canto che non è mai fine a se stesso, che non esibisce mai una bellezza (che pure c’è e in abbondanza) compiaciuta e che si sposa bene con un’interpretazione scenica calibratissima, perfetta in ogni gesto con il quale Hotea disegna un Duca di Mantova senza scrupoli, compulsivo nel cercare l’amore (il sesso) sfidando la morte – e in questo parente strettissimo, anche nella lettura registica di Uwe Eric Laufenberg del Don Giovanni mozartiano. Rigoletto ha la pasta scura e morbida della voce di Aluda Todua, capace di accentare verdianamente il suo canto, nella sferzante ironia del buffone, nella dolente malinconia di un padre, nel dolore lancinante di un uomo tradito prima che dalla vita da se stesso. Il baritono georgiano si cala con bella intensità nei panni del buffone e lo restituisce nella sua statura tragica con un canto sempre teso e asciutto. Gilda ha la voce di vetro di Anastasiya Taratorkina, che ben disegna il ritratto di una ragazza fragile, in balia della vita. Young Doo Park offre il suo timbro scuro e profondo a Sparafucile, Fleuranne Brockway la sua prorompenza vocale e scenica a Maddalena.
Maddalena che finisce in roulotte con il Duca. Scena riuscitissima, ancora una volta dal taglio cinematografico, quella della roulotte che sul finale, quando Rigoletto si trova tra le braccia Gilda morente, esce di scena mentre il Duca canta per la terza volta la sua «Donna è mobile». Lanciando quell’acuto che segna la vittoria del Duca su Rigoletto. (S)b(r)uffone, il Duca. Come – e ci può stare – tutti noi che siamo al di qual del sipario.
Nelle foto @Karl Forster Rigoletto all’Hessisches Staatstheater di Wiesbaden