La gazzetta, l’amore quando non c’erano le app

A Pesaro l’opera di Rossini ispirata a un testo di Goldoni dove un padre cerca marito per la figlia con un’inserzione Dirige Carlo Rizzi, ambientazione anni ’50 di Marco Carniti

Oggi ci sono social e chat di incontri. Basta un click. Lanci l’app, un like e se ci si piace ci si incontra. E, perché no, ci si sposa anche. Velocissimo e rapido l’amore ai tempi di Tinder. Un tempo, invece, era tutto diverso: «Si stava meglio quando si stava peggio…» direbbe qualcuno. Certo il “meglio”, spesso, erano matrimoni combinati (e a qualche ragazza da marito capitava di vedere lo sposo per la prima volta solo sull’altare), studiati a tavolino dalle famiglie per i più vari motivi. Un annuncio sul giornale per maritare una figlia… con tanto di selezione dei pretendenti… non era certo qualcosa di usuale. E detto così oggi sembra quasi una sorta di social prima delle conquiste tecnologiche. Un paradosso che, come sempre capita quando si fa satira pungente (e anche feroce), ben racconta un (mal) costume dei tempi in cui, appunto, «Si stava meglio quando si stava peggio…». La mano della figlia messa come oggetto di un annuncio sul giornale… per denunciare, con il sorriso ironico e beffardo dell’arte il malcostume dei matrimoni combinati. Per far ridere di loro stessi i signori che sedevano in platea – il concetto non è cambiato… perché la satira (tragicamente) ci fa ridire di noi.

Ecco l’idea de La gazzetta di Gioachino Rossini, secondo titolo dell’edizione 2022 del Rossini opera festival. La farsa, sferzante, feroce, irresistibile. Presa da una commedia di Carlo Goldoni, Il matrimonio per concorso, anno 1763, messa in musica da Rossini per Napoli nel 1816 (lo stesso anno di Otello) su libretto di Giuseppe Palomba. Soggetto, quello di Goldoni, che già aveva ispirato musicisti come Niccolò Jommelli e Gaetano Mosca (scrisse un Avviso al pubblico nel 1814 per il Teatro alla Scala). Rossini per Napoli lo fa diventare La gazzetta, farsa che, a differenza di quelle perfette e compiute in un atto (L’occasione fa il ladroIl signor Bruschino…), qui diventa una corposa opera buffa, due ore e mezza di musica – e sarebbe durata anche di più se non ci fossero stati alcuni tagli sull’edizione critica di Philip Gosset e Filippo Scipioni – per raccontare in due atti la strampalata idea di Don Pomponio Storione, napoletano (e il libretto per lui è in napoletano) che arriva a Parigi e fa pubblicare sulla Gazzetta del titolo un annuncio per maritare la figlia Lisetta. Che naturalmente è già innamorata e promessa ad un altro. A Filippo che, guarda caso, è il locandiere dove la ragazza e il padre alloggiano e dove ci sono un altro padre (Anselmo) e un’altra figlia (Doralice), italiani anche loro, alle prese con un altro matrimonio combinato… nonostante la ragazza si innamori a prima vista di Alberto (che di cognome fa Filippi… tanto per innescare i giochi di parole) venuto all’albergo dopo aver letto l’annuncio sulla Gazzetta. Scambi di persona, fraintendimenti, amori e gelosie, maneggi e due finali “etnici” (figli del gusto del tempo che voleva l’esotico nella commedia, che oggi sarebbero bollati come politicamente scorretti) il primo con Filippo che si traveste da quacchero per provare (invano) a sposare Lisetta e il secondo dove tutti sono mascherati alla maniera turca (dove turco è un Oriente esotico e favolistico), stratagemma che serve per sciogliere i nodi e volare verso il lieto fine.

Che arriva, con il perdono dei padri che benedicono i matrimoni d’amore delle figlie. Su un finale tipicamente rossiniano – e il coro fa la sua postilla: «Ci vogliamo in ogni giorno la gazzetta rammentar» dopo due ore e mezza di musica tipicamente rossiniana. Marchio di fabbrica inconfondibile sulla Gazzetta che parte con la sinfonia che poi diventerà quella de La Cenerentola e che prosegue con molti dei cosiddetti autoimprestiti rossiniani. Così il gioco, oltre a quello di seguire le vicende della doppia coppia di amanti, è quello di trovare da dove vengono (o dove andranno) quelle pagine che senti nella Gazzetta e che riconosci – anche perché non solo le note, ma spesso anche le parole sono le stesse: «Mi par d’esser con la testa…», «Amor la danza muova», «Pe da gusto alla Signora» traduzione napoletana di «Per piacere alla Signora»… Barbiere di Siviglia, Turco in Italia i più noti, ma anche Torvaldo e Dorliska, La pietra del paragone, La cambiale di matrimonio, L’equivoco stravagante le opere (da dove vengono o dove andranno) tante delle pagine de La gazzetta. Partitura che è un mix di pagine ispirate e altre di chiaro mestiere (come si usava al tempo…) che Carlo Rizzi dirige con puntualità e gusto sul podio dell’Orchestra sinfonica Rossini (meno precisi gli interventi del coro – qui tutto al maschile – del Teatro della Fortuna di Fano). Rizzi offre unità alla narrazione, tiene il ritmo teatrale vivo, anche dove (specie nel secondo atto) la vicenda si sfilaccia e la musica rischia di allungare troppo il brodo.

Stallo che si vede anche sul finale (laddove l’invenzione musicale è un po’ stanca) nella regia di Marco Carniti. Spettacolo datato 2015 (e si vede chiaro in quel cartello «Con la cultura si mangia» che arriva sul finale, figlio di quell’anno e della situazione politica di allora, ma oggi non così immediatamente comprensibile… perché non aggiornarlo?) che racconta La gazzetta come un film (spesso in banco e nero, ma con alcune macchie di colore pop che ti fanno pensare alle pellicole ridipinte). Una commedia sofisticata, un po’ alla Ernst Lubitsch, ambientata negli anni Cinquanta con i costumi di Maria Filippi che evocano senza ricalcarla la moda del tempo, mentre le scene di Manuela Gasperoni scelgono la via dell’astrazione (a volte anche troppo) con pochi elementi e le (già viste) lettere luminose che componendosi indicano, in una sorta di straniamento, i luoghi dell’azione o frasi clou del libretto. Recitazione marcata, caricaturale, che trova il vertice nella trascinante e irresistibile prova di Ernesto Lama, servo muto di Don Pomponio, sempre in scena a contrappuntare ogni azione con un gesto, uno sguardo, un tic che sanno catturare l’attenzione e dare leggerezza stralunata alla narrazione. Fatta di suggestioni, di visioni, di immagini un po’ alla Magritte che si stagliano (ritagliate dalle luci di Fabio Rossi) sul grigio perla delle pareti di plastica che avvolgono il palco e dal quale prendono corpo i personaggi.

Don Pomponio Storione ha la simpatia napoletana (il basso è napoletano come il personaggio che interpreta) e la musicalità Carlo Lepore, che restituisce con gusto e misura la figura tragicomica che muove tutta la vicenda. Tutta in crescendo la Lisetta di Maria Grazia Schiavo (la scrittura è impervia e il soprano napoletano ne viene a capo con intelligenza musicale e tecnica) così come l’Alberto di Pietro Adaini (e anche per il tenore la scrittura è impegnativa). Con la sua eleganza e la sua classe Giorgio Caoduro centra perfettamente (tanto sul fronte vocale che su quello scenico) il personaggio di Filippo. Più trattenuta Martiniana Antoniane (Doralice) così come Alejandro Balinas (che fa Anselmo, il padre di lei). Bella voce e energia le sfodera Andrea Nino, Madama la Rose, personaggio di contorno che ha, però, un’aria che il mezzosoprano di Bogotà restituisce con bel gusto. Efficace Pablo Galvez come Monsù Traversen.

Italiani, parigini… che oggi, per trovare marito o moglie, scaricherebbero un app sul cellulare. Ma forse nessuno penserebbe di farci sopra un’opera. Divertente, spassosa, come La gazzetta.

Nelle foto @Studio Amati/Bacciardi La gazzetta al Rof