Scala, nella Gioconda i fantasmi di Livermore

Il melodramma di Ponchielli torna a Milano dopo 25 anni Nella regia una Venezia da incubo come in un film horror Fuori fuoco e deludente la direzione di Frédéric Chaslin Cast ad hoc con Saioa Hernandez ottima protagonista

Sono tutti fantasmi. Gioconda, la Cieca, Laura ed Enzo, Barnaba, Alvise. Fantasmi che si aggirano in una Venezia grigia, plumbea, dove anche le maschere non sono, come ti aspetteresti, un’esplosione di colori. Sono maschere inquiete (vestite alla De Chirico), che starebbero bene in una danza macabra, perché dietro un apparente sorriso si nasconde un ghigno sinistro. Una Venezia senza tempo, tra il Casanova di Federico Fellini e le tavole di Venezia Celeste di Moebius. Una Venezia senz’acqua (se ne vedono solo i riflessi sugli edifici) con le gondole che fluttuano quasi a mezz’aria senza trovare un approdo, tra briccole piantate nel nulla e paline la cui anima è un freddo neon. Una Venezia avvolta dalla nebbia. Che è quella fisica, che ormai si respira di rado nella città lagunare, come in tutta la pianura Padana. Ma che è soprattutto la nebbia dei ricordi, che sfoca i contorni delle cose e li restituisce nella loro impalpabile (in)consistenza. Quell’(in)consistenza che è la stessa dei fantasmi.

Che in questa Venezia da film dell’orrore (un po’ giallo psicologico e un po’ racconto pulp e splatter) si aggirano. Fantasmi di morti (viventi). E forse Gioconda, la Cieca, Laura ed Enzo, Barnaba, Alvise sono tutti morti, già morti prima che la storia inizi. Spiriti fluttuanti in un’aria rarefatta dalla nebbia quando dalla buca dell’orchestra salgono, plumbee e dense, le note del preludio de La Gioconda di Amilcare Ponchielli. Sono già tutti già morti. Lo siamo anche noi? In platea? Fantasmi tra i fantasmi… ti viene da chiederti di fronte allo spettacolo di Davide Livermore che da subito ti tira dentro la sua regia, la sua narrazione da racconto gotico, appunto. Racconto dell’orrore, racconto di fantasmi dell’opera (e ci sta pure il gioco di parole) che il librettista Arrigo Boito (che qui si presenta con lo pseudonimo di Tobia Gorrio, anagramma del suo nome) trae dal dramma Angelo, tyran de Padoue di Victor Hugo. Ma lo modifica non poco, facendolo diventare la storia di Gioconda, cantatrice e figlia di una madre cieca (non sappiamo come si chiama è la Cieca) e devota (prega il rosario), innamorata (poco ricambiata) di Enzo, marinaio che dice di essere dalmata, ma in realtà è genovese e di nobili origini. Un tempo promesso sposo di Lura Adorno (cognome genovese) che oggi è la moglie del nobile veneziano Alvise Badoero. I due si reincontrano a Venezia, si riconoscono dietro la maschera e progettano la fuga. Barnaba, la spia, la gola profonda del Consiglio dei dieci, innamorato di Gioconda, scopre le trame, denuncia i due, ma il marito di lei per poco non li coglie sul fatto. Alvise, però, non perdona e costringe la moglie a uccidersi con un veleno. Gioconda lo scopre e offre a Laura una pozione che finge la morte. Durante una festa Alvise svela la morte della moglie infedele, Enzo giura vendetta, ma viene arrestato. Gioconda chiede a Barnaba di salvarlo, in cambio gli offre il suo corpo. Al suo risveglio Laura trova Enzo ad attenderla e i due possono fuggire con la benedizione di Gioconda che si scarifica per amore. E che nel momento di pagare a Barnaba il pegno si suicida.

Frasi iconiche come «la cieca ci guarda, la cieca ci vede», l’«infanzia bionda», «l’amor passa le larve», «l’orizzonte bacia l’onda, l’onda bacia l’orizzonte», «con quelle labbra che succhiaro i baci suggi la morte», la «furibonda iena che frughi il cimitero, maledetta eumenide gelosa della morte» fanno di Gioconda un cult, un drammone a tinte forti, scapigliato come i suoi autori (e così deve essere fatta, scapigliata, sghemba, bella di una bellezza torbida e astrusa), tornata al Teatro alla Scala dove mancava dal 1997. Opera di fantasmi… basta evocare la Maria (Callas, naturalmente), inarrivabile Gioconda che ha fatto del personaggio di Ponchielli quasi un suo alter ego, cantatrice che ama non riamata… (serve citare Onassis?) e che muore d’amore… E non è un caso che nella casa di Parigi, accanto al corpo senza vita di Maria, quel 16 settembre c’era un foglietto di carta, azzurro, con sopra le parole del celeberrimo Suicidio di Gioconda. Fantasmi si diceva. Perché sulle note del preludio, in questo allestimento scaligero (programmato per il 2020 e posticipato causa Covid), nella luce del soffitto di palazzo Grimani (che osserviamo da sotto, in una vertiginosa visione) vediamo subito i delitti, il «velen di Laura», l’uccisione della Cieca da parte di Barnaba, il suicidio di Gioconda. Perché «tutto è compiuto» già all’inizio. E così quando la storia inizia, tra «feste e pane» mentre «a gioja suonano di San Marco le campane», quelli che vediamo sono fantasmi. Che si aggirano tra la folla che quasi non li vede e continua a festeggiare il carnevale. Fantasmi che però ci sono, come nei vecchi castelli. Che abitano Venezia, quasi incatenati alla bellezza inquieta della laguna.

Fantasmi che infestano le calli, che attraversano i muri dei palazzi, popolati di presenze. Muri e palazzi che sono trasparenti, impalpabili – bellissima in questo senso la visione tutta in controluce che Livermore crea nel terzo atto, nello scontro tra Laura e Alvise, quando marito e moglie si inseguono tra i corridoi della Ca’ d’Oro che gira vorticosamente su se stessa (un girevole offre il moto perpetuo ad un’azione che, nonostante sia in movimento, ha la staticità della morte). Scenografie monumentali (il brigantino del secondo atto è a grandezza naturale e anche di più) di Giò Forma (questa volta meno in dialogo del solito con i video di D-Wok) che evocano una Venezia da incubo nella quale si aggirano come fantasmi i personaggi di questa soap opera d’altri tempi, seguiti sempre da un angelo (nella vertigine di marmo di palazzo Grimiani vola una creatura alata..) che li guida in un purgatorio sulla terra, in cerca di pace. Pace che Gioconda trova solo quando si ricongiunge alla madre, la Cieca, in un finale inquieto e inquietante, dove la cantatrice si osserva dall’esterno, riversa su una poltrona, morta suicida con un pugnale nel ventre, mentre Barnaba, il «demon maledetto» beffato, si dispera per non essere riuscito a ottenere il suo «corpo».

Gioconda e il suo doppio. Ma anche Laura e il suo doppio. Figura che si moltiplica nella Danza delle ore – perché Gioconda strizza l’occhio al grand opera francese e prevede anche un balletto, la pagina più celebre di tutta l’opera grazie agli ippopotami della Disney – che Frédéric Olivieri ha coreografato (tra il neoclassicismo di George Balanchine e l’ironia da music hall di Roland Petit) per i suoi ragazzi (bravissimi) del settimo corso della Scuola di ballo scaligera. Laura sul canapè narcotizzata, Laura che spicca il volo, Laura appesa ad un lampadario déco… in una cornice primo Novecento (i costumi, in verità non esteticamente belli, sono di Mariana Fracasso) che rende il racconto visivo di Livermore (che anche in questo allestimento mette i suoi tic e i suoi feticci – e anche qualche debolezza specie nella recitazione di solisti) ancora più kitsch e ancora più inquietante.

Da film horror, appunto. Psicologico, ma anche con una buona dose pulp (lo sottolineano le luci di Antonio Castro). Peccato che la musica, quella diretta in buca da Frédéric Chaslin, vada da tutt’altra parte. Forse scritturando un direttore francese si può aver pensato che sarebbe stato perfetto per il grand opera in salsa italiana. Ma l’equazione non ha funzionato (perché Gioconda non è Les Huguenots e nemmeno Guillaume Tell). Anzi, ha rappresentato il punto debole dell’operazione Gioconda, partitura che nasce scapigliata e corrusca. E così va restituita, senza paura, senza voler tentare inutili intellettualismi (o belcantismi, che pur nelle micidiali colorature finali del soprano ci sono) che non sono per nulla “filologici”. Si va a sentire Gioconda (che compare raramente nei nostri cartelloni, in verità) anche per questo. Così certe raffinatezze che il direttore cerca (e a fatica ottiene da un’orchestra generica – clamorosa la stecca degli ottoni alla fine del terzo atto) stridono con il carattere composito e da melodramma (nel senso letterale del termine, di dramma melò) della partitura di Ponchielli. Una direzione fuori fuoco, approssimativa (e agli applausi finali la sera della prima, dopo e qualche timido apprezzamento, sono piovuti all’indirizzo del direttore diversi dissensi) . Senza contare i tempi tutti uguali e tendenti al lento/lenissimo – e il risultato è che spesso il podio mette in difficoltà i cantanti – e le frequenti scollature tra buca e palcoscenico – riuscire a far andare fuori tempo il coro della Scala preparato alla perfezione da Alberto Malazzi è impresa ardua, ma che qui (sfortunatamente) riesce. La tinta unica, italianissima, insieme a quella perfetta delle voci bianche di Bruno Casoni, è tutta da assaporare e gustare.

Tengono, e quasi tutte bene, le voci. Messe continuamente alla prova dal podio, ma alla fine vincenti per l’intelligenza musicale degli interpreti, tutti ideali per questo repertorio. Che, loro sì, restituiscono al meglio, per quello che è. Gioconda è il ruolo perfetto (questo e le Abigaille, le Tosca, le Lady Macbeth, le Odabella…) per Saioa Hernandez, ruolo che dalla provincia l’ha portata direttamente sul palco del 7 dicembre della Scala, dove avrebbe dovuto tornare proprio nei panni della cantatrice nel 2020. Ma dopo la riprogrammazione post-pandemia il nome del soprano spagnolo era sparito, sostituito da quello di Sonya Yoncheva che, però, a meno di due settimane dalla prima ha cancellato il suo impegno – scompigliando non poco le carte. La Hernandez, con una notevole signorilità, ha accettato di tornare in locandina, salvando la produzione – chi c’è oggi che in dieci giorni fa una Gioconda così? Voce piena, bella, screziata di malinconia (e di emozione e pazienza per l’increspatura sull’«Enzo adorato»), che riempie la sala e buca senza problemi il muro di suono dell’orchestra. Come fa Stefano La Colla, squillo luminoso e avvolgente (l’intonazione, però, a tratti vacilla) per Enzo – La Colla è arrivato alla vigilia della prova generale, salvando anche lui la nave di Gioconda,  per sostituire il previsto Fabio Sartori, ufficialmente indisposto (un’indisposizione, però, confermata da subito sino all’ultima replica), ma qualcuno dice rinunciatario perché in dissenso con il direttore e con la sua lettura della partitura. Come fa con spocchia azzeccata per Alvise Erwin Schrott. Daniela Barcellona è una Laura dolente e malinconica, Anna Maria Chiuri una Cieca intensa e commovente, Roberto Frontali un Barnaba di indubbio carisma scenico, capace di dare il giusto peso drammatico alla parola. Tutti – con Fabrizio Beggi (Zuane), Francesco Pittari (Isepo), Giorgio Valerio (un cantore) e Guillermo Esteban Bussolini (un barnabotto) – fantasmi che si aggirano (e si moltiplicano, proprio come gli spiriti) in una Venezia plumbea. Specchio, nel suo dare forma ad un incubo, di un mondo inquieto. Come il nostro.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala La Gioconda