Domingo, i miei ottant’anni sulla scena della vita

Il grande tenore (oggi baritono) spagnolo si racconta: l’infanzia in teatro, i successi sui palchi di tutto il mondo poi i giorni bui della malattia e delle accuse del #metoo

Fine anno, si sa, è tempo di bilanci. Tempo di tirare le somme. «Ho avuto più di quanto potessi immaginare e mi ritengo fortunato. In tanti anni ho conosciuto persone straordinarie e ho potuto fare della mia passione il lavoro di tutta la mia vita» riflette Placido Domingo nell’ultimo giorno di questo 2021. «L’anno dei miei ottant’anni» sorride il tenore (che ama anche salire sul podio per dirigere) spagnolo. «Sono nato a Madrid, ma quando avevo otto anni con i miei genitori ci siamo trasferiti in Messico. Don Plácido era mio padre, anche lui baritono e musicista. E allora io per mia mamma sono sempre stato Plácidin. E questo nome ce lo tramandiamo di generazione in generazione» racconta Domingo dalla capitale spagnola. «Ogni anno per Natale riunisco la mia famiglia sparsa in giro per il mondo. Ci sono tanti ricordi che tornano – e la voce del grande interprete, abituato ai palcoscenici lirici di tutto il mondo, per un attimo si increspa –. Ricordi dei Natali passati con chi oggi non c’è più, amici che, però, sento ancora tanto vicino. E poi – e riecco lo squillo inconfondibile del tenore che oggi canta da baritono – c’è la gioia di vedere tutto l’entusiasmo dei più piccoli: i miei nipoti preparano feste e spettacoli con musica. La famiglia è la mia forza, un rifugio sicuro dove mi sento amato».

Proviamo, Placido Domingo, a fare un bilancio in cifre della sua carriera?

«Ho interpretato oltre 150 ruoli di cui almeno una quindicina come baritono e ho diretto più di 600 tra opere e concerti. Diciamo che tra poco arriverò alla mia recita numero 4.100, di cui un centinaio sono state serate di zarzuela, perché ho iniziato lì, nella compagnia dei miei genitori. E poi da ragazzo ho fatto quasi 280 recite di My fair lady, il musical».

Ma se dovesse scegliere: tenore, baritono o direttore?

«Non saprei, ogni stagione della vita è diversa. Adesso mi sento a mio agio come baritono e sono ben felice di aver lasciato i ruoli da tenore che, intendiamoci, ho amato tantissimo, Otello, Cavaradossi, Don José, Siegmund… da Mozart al belcanto sino al verismo, dal repertorio tedesco a quello francese con qualche incursione nel repertorio russo. E come direttore sono ben felice di poter alternare questa mia passione al canto».

Sono pochi i giorni liberi in agenda. Dove trova la forza per “vestire la giubba” ogni sera e andare in scena?

«L’entusiasmo per la vita e per la musica e poi quell’energia che arriva dal pubblico: quando sei sul palcoscenico la senti e ti ripaga di ogni sforzo. Certo quando sei giovane non senti quasi la fatica, ma con gli anni devi imparare a misurarti anche con te stesso per cercare di dare sempre il massimo».

Quelle che prova oggi sono le stesse sensazioni che provava a inizio della sua carriera?

«Assolutamente sì, non c’è una serata in cui posso dire di non aver provato quel misto di nervi e adrenalina prima di una recita. Non esiste la routine in questo lavoro! E poi bisogna essere in forma e anche cercare di trasmettere emozioni al pubblico, mettendo da parte magari i pensieri o le preoccupazioni personali che tutti quanti abbiamo per dare tutto al personaggio che si interpreta».

Le capita mai di pensare ad un addio alle scene? «Tutto secondo me deve avvenire in modo molto naturale. Non avrei mai potuto immaginare di essere ancora in scena a ottant’anni suonati. Verrà un giorno in cui dirò: “Ecco questa era la mia ultima recita!” senza stare a fare troppi piani. Calato il sipario andremo tutti a cena, come al solito. Se seguiamo il mito della bellezza e dell’eterna giovinezza, travolti da questa vuota frenesia, è facile sentirsi fuori posto già con la metà dei miei anni. Penso che se le cose si fanno con passione allora gli anni che passano possono arricchirci dentro. Lontano dalle scene? Ma la musica per me non è un lavoro, che uno lascia prima o dopo, per me è parte della mia vita».

La sua era una famiglia di musicisti, dunque per lei un destino segnato?

«Ho avuto un’infanzia bella con bei ricordi anche se per due anni sono stato lontano dai miei genitori perché loro erano andati per lavoro in Messico e io e la mia sorellina eravamo rimasti a Madrid affidati alla sorella di mia madre, la nostra amatissima zia Agustina che era per noi come una seconda mamma. Incredibile come era il mondo, non esistevano le videochiamate e per attraversare l’oceano abbiamo fatto un mese di nave. Sono quasi nato in teatro perché fino al nono mese mia madre ha continuato a cantare. Sono cresciuto in teatro, passavo tutto il tempo che potevo con i miei genitori che lavoravano tantissimo perché avevano creato la loro compagnia di zarzuela. Loro, tra prove e recite, avevano anche tre spettacoli al giorno. E io non volevo mai andare a dormire la sera perché ero affascinato da quel mondo… anche se da bambino sognavo di fare il torero o il calciatore».

E quando è diventato “Placido Domingo”?

«Il mio nome ha incominciato a circolare dopo alcuni debutti importanti, penso al Metropolitan di New York o alla Scala, quando cantavano artisti straordinari come Franco Corelli e Giuseppe Di Stefano. Da allora ho fatto tanta strada. Devo dire grazie ai miei genitori che mi hanno dato una doppia vita, quella fisica e quella artistica. E poi a mia moglie Marta perché ho imparato tantissimo da lei che è stata anche una cantante con una preparazione culturale veramente completa, fondamentale per tutta la mia carriera».

Sono molti i ruoli con i quali ha scritto la storia della lirica del Novecento. Il più amato?

«Otello è senz’altro il ruolo che mi ha dato di più perché è una grande prova di interpretazione che ti fa crescere anche per affrontare altri ruoli. Oggi veramente mi sento in sintonia con i ruoli di padre, soprattutto quelli nati dal genio di Verdi. Sono personaggi pieni di umanità e questo arriva in modo più vero al pubblico».

Applausi, trionfi, ma quando torna a casa cosa fa Placido Domingo?

«Appena ho qualche giorno libero mi piace stare con i miei figli e con i miei nipoti e così faccio il nonno, li ascolto, ci divertiamo e facciamo anche musica insieme. Scopro un sacco di cose e li vedo crescere. Con loro ascolto un po’ di tutto, sono adolescenti, ma amano anche la musica classica e quando possono mi vengono a sentire. Siamo appassionati di calcio e di formula uno e appena c’è l’occasione andiamo insieme a vedere questi sport».

La malattia è arrivata improvvisa nella sua vita. Cosa l’ha aiutata a trovare la forza per andare avanti?

«La malattia fa parte delle prove che la vita ti mette davanti. La cosa più dolorosa per me è stato vivere la malattia delle persone care. Quello mi ha fatto più soffrire in assoluto. Mentre quando io mi sono trovato in situazioni più serie di salute, e negli ultimi anni mi è capitato più di una volta, devo dire che il pensiero maggiore era rivolto a mia moglie e alla mia famiglia perché sentivo che soffrivano per me e non volevo questo. La vita ci dà delle alle quali non possiamo sottrarci e allora credo che l’unica cosa sia cercare di trovare la forza nella fede».

La fede che posto ha nella sua vita?

«È una domanda difficile, credo che sia davvero difficile poterla conquistare proprio perché siamo esseri umani, è il nostro limite. Ma forse questo limite che ci riempie di domande e di dubbi è anche la nostra forza. Sento che nelle prove della vita la fede è come un sollievo e nei momenti belli di ogni giorno avverto il bisogno di ringraziare. E questo mi fa innamorare ancora di più della vita». 

Sull’onda di un movimento che specie negli Stati Uniti si è fatto strada, anche su lei si sono allungate le ombre del #metoo. Cosa ha provato?

«Sono stati giorni bui, soprattutto per l’enorme ondata mediatica che si era sollevata e mi aveva travolto come un fiume in piena. Devo dire grazie alla mia famiglia e agli amici veri che mi sono stati accanto sempre. Più che pensare alla mia carriera quello che mi angustiava era cosa avrebbe pensato di me il pubblico, la gente che veniva a sentirmi a teatro leggendo certe cose che erano ovunque. Ma la prima volta che ho messo piede sul palcoscenico a pochi giorni dall’esplosione di quello tsunami è stato al Festival di Salisburgo e non posso dimenticare l’emozione che ho sentito quando il pubblico, prima che io aprissi bocca, mi ha accolto con un applauso che è stato per me come un abbraccio».

Ha dovuto anche affrontare anche il ricovero per il Covid…

«Quei giorni sono stati una dura prova. Grazie al cielo non ho avuto esiti e sono guarito bene, ma la paura era forte tanto più che anche mia moglie si era malata. La cosa più orribile è la solitudine a cui questa malattia ti costringe, la condanna a essere solo, a non poter vedere il volto delle persone che ami. Ho pensato che avrei potuto non farcela e che poteva anche essere la fine. Tanto più che ho visto molti amici andare via».

Chi le manca?

«Ci sono persone a cui si deve dire addio, ma dalle quali non ci si separa mai, perché anche se non le posso più vedere le sento sempre accanto, come se il dialogo con loro non fosse mai finito. Mi manca tanto mia sorella e anche se ormai sono bisnonno spesso penso ai miei genitori».

Intervista pubblicata in gran parte su Avvenire del 31 dicembre 2021

In apertura foto Afp, i ritratti sono di Fiorenzo Niccoli