Gatti: la mia Traviata è un film nel teatro chiuso

A Roma il direttore per il Verdi con la regia di Martone «Tolgo le incrostazioni per raccontare una storia cruda dove in controluce si comprende la fede del compositore. Sale vuote opportunità per concentrarci sulla musica»

«Dire che in teatro il pubblico è fondamentale è dire una cosa scontata. Come dire che giocare una partita di calcio senza i tifosi è diverso dal farlo con lo stadio pieno, lo sanno tutti. Cose che sento in continuazione da un anno, ma solo perché si devono dire. Io non lo faccio, perché non voglio rimarcare l’ovvio». Come sempre Daniele Gatti ti spiazza. E non poco. «Piuttosto rifletto su un altro aspetto. Siamo onesti – incalza il direttore d’orchestra milanese, classe 1961 – quante volte il pubblico in sala ha portato noi artisti ad esagerare le nostre performance? Quante volte il fatto di sapersi ascoltati ha portato un certo narcisismo nel nostro modo di fare musica?» si chiede Gatti. «Ora tutto questo per il Covid non c’è più».

Niente più alibi dice il direttore d’orchestra per il quale i teatri devono riaprire il prima possibile. «Ma sarebbe un errore non far tesoro di questa lezione prendendo ciò che di buono arriva da una situazione drammatica come quella in cui ci ha gettato il Covid. In questi mesi ho diretto molto a porte chiuse e ho notato che, senza pubblico, non paghiamo dazio, ma ci concentriamo solo sulla musica». Teatri chiusi. Concerti e opere in streaming. O in tv. Come capita venerdì 9 aprile per La traviata di Giuseppe Verdi: alle 21.20 su Rai3 arriva il film prodotto dal Teatro dell’Opera di Roma in collaborazione con RaiCultura. Stessa squadra che a dicembre ha portato al successo, sempre su Rai3, il Barbiere di Siviglia. Regia (e scene, recuperate nei magazzini dell’Opera) di Mario Martone che ambienta le vicende di Violetta e Alfredo tra la platea e i corridoi del Costanzi. La bacchetta di Gatti, direttore musicale del Teatro dell’Opera, che ha scelto le voci di Lisette Oropesa, Saimir Pirgu e Roberto Frontali per quella che sarà «una Traviata più moderna, anche più cruda, abbastanza radicale dalla quale voglio togliere la patina sentimentale, persino lacrimevole, per riconsegnare al pubblico l’autenticità della scrittura» racconta il direttore che prosegue così il suo percorso di riletture delle opere verdiane.

Una nuova tappa, dopo il Rigoletto di questa estate al Circo Massimo, per sfrondare dalla partitura le aggiunte della tradizione. «Quando ho fatto questo lavoro di ripulitura, questo percorso di ritorno all’essenziale mi sono accorto che la grandezza teatrale e poetica di Verdi esce in tutta la sua forza». Che in Traviata riflette Gatti è quella di una denuncia sociale senza precedenti.

«Quella di Violetta non è una storia d’amore, ma è il racconto di un mondo senza compassione. Traviata è un j’accuse che Verdi fa alla società del suo tempo dove il denaro muoveva tutto ed era alla base dei rapporti umani. Ci si sposava con una donna che magari non si amava, che doveva mettere al mondo dei figli. Poi c’era l’amante, anche da esibire in società, perché la passione era fuori dalla famiglia. Ecco che un personaggio come Violetta mette in crisi un intero sistema perché per lei l’amore non è la passione che chi la paga vorrebbe, ma è quell’innocenza degli affetti che scopre con Alfredo e che apre uno squarcio di luce in un mondo buio dove lei si sente acquistata. Uno scandalo».

Il tutto in una società che si regge su quattro colonne: Dio, patria, famiglia e onore. «Verdi scrive il Dite alla giovine che Violetta canta annunciando il suo sacrificio in tempo di valzer perché il valzer era il marchio della mantenuta. Così quando Violetta risponde a Germont è la cortigiana che parla, così lui la sente perché convinto di averla rimessa al suo posto. Germont, quando chiede a Violetta di lasciare Alfredo tira in ballo Dio. Dio mi guidò… Dio m’esaudì canta poi rivolgendosi al figlio quello che ho sempre pensato potesse essere il peggior padre raccontato da Verdi, cinico come nessuno, incapace di provare quella compassione che invece il figlio Alfredo prova per Violetta».

Gatti, poi, va oltre. «Da qui parto e mi chiedo: qual è il rapporto con la religione di un compositore come Verdi che si dichiara ateo o comunque non credente, ma che forse è solo anticlericale? Nella sua musica troviamo squarci di religiosità, magari camuffati. Mi piace pensare che nel Falstaff, dove non c’è accenno alla religiosità, la dolcezza musicale con cui vengono raccontati i due giovani Nannetta e Fenton, sia quella di un uomo ormai anziano che guarda con un senso di benedizione questa nuova coppia». Non solo. Per il direttore d’orchestra la fede di Verdi si legge in controluce nel modo in cui fa morire i suoi personaggi. «Tutti abbiamo presente il terrore del Dies Irae, ma la Messa da Requiem finisce in do maggiore. Così Gilda in Rigoletto muore in re bemolle maggiore, mentre venticinque anni dopo Verdi farà morire Aida e Radames in una tessitura altissima e anche la musica che accompagna l’addio di Simon Boccanegra è rarefatta. Persino Otello finisce in mi maggiore. Traviata, è vero, si chiude in minore. Ma nella prima versione, quella della Fenice, la parte dei violini che accompagna il declamato di Violetta Cessarono gli spasimi… è tutta al sovracuto. Per Roma, così come avevo fatto nel 2013 alla Scala, scelgo questa prima versione rispetto alla seconda dove Verdi rimaneggia il finale mettendo tutto in una posizione più centrale: se nella seconda versione muore il corpo di Violetta, nella prima versione la sua anima è accolta da Dio. Scelgo questa».

Un tornare alle radici che per un interprete significa «mettersi al servizio di un’arte che è di chi è stato graziato da Dio con particolari talenti. Io – conclude Gatti – devo cercare di far capire che attraverso opere come Traviata possiamo mettere sul tavolo domande ed eventualmente anche alcune risposte sul mistero della vita».

Articolo pubblicato su Avvenire del 9 aprile 2021

Nelle foto @Fabrizio Sansoni Daniele Gatti sul podio del Teatro dell’Opera di Roma per Traviata