La Lecouvreur a Bologna, l’opera diventa un film

Cilea diretto da Fish nel Comunale trasformato in set Quattro diverse epoche nella regia di Rosetta Cucchi Intensi protagonisti Opolais, Simeoni, Ganci e Alaimo

Fa sempre un certo effetto sentire Michonnet che dice ad Adriana «noi siam povera gente, lasciam scherzare i grandi». Sintesi perfetta della storia raccontata in musica da Francesco Cilea – ispirandosi al dramma di Scribe e Legouvé – nella sua Adriana Lecouvreur. Sintesi drammaturgica, certo, perché Adriana “gioca” con i potenti, con principi e principesse, e ne esce inevitabilmente sconfitta. Ma soprattutto sintesi emotiva, che ti prende allo stomaco per la disarmante verità con la quale arriva – qui, grazie a Nicola Alaimo che la pronuncia, drammaticamente vero nel ruolo del direttore di scena della Comédie francais. Un «noi siamo povera gente» che fotografa qualcosa di chi ascolta – e siamo noi davanti al televisore – e si specchia in quella condizione di impotenza di fronte al potere. Da declinare, in questo tempo sospeso, in mille modi. Ciascuno ha il suo.

Adriana Lecouvreur senza tempo, perché parla ancora oggi, quella andata in onda su Rai5 (35mila spettatori, ora lo spettacolo è su RaiPlay), prodotta da RaiCultura e dal Teatro Comunale di Bologna che è stato il set del film-opera (girato in quattro giorni a inizio febbraio e poi montato in studio) con la regia di Rosetta Cucchi. Senza tempo, o meglio, con quattro tempi diversi, tante sono le epoche, una per atto, che la regista ha scelto (idea certo non nuova, ma che funziona) per ambientare il suo lavoro. Si inizia dal 1730 del libretto, si passa a un 1860 da Secondo impero di Napoleone III, si fa tappa in un cabaret fumoso del 1930 per approdare (anche se sembra passato un secolo) alla contestazione del 1968 e alle cantine teatrali. Dove adriana muore. O, forse, da diva, entra nell’immortalità. Immagine con la quale Rosetta Cucchi sigilla il finale di un film tutto in crescendo.

Parte in sordina, quasi fosse, nel primo atto settecentesco, la ripresa di uno spettacolo frontale, con, unica differenza, la steadycam tra i cantanti a scrutarne attraverso gli occhi l’anima. Prosegue con un secondo atto altalenante dove le scene più riuscite sono quelle tra i corridoi e nei palchi della sala del Bibiena – perché quelle claustrofobiche nel salottino denunciano l’artificiosità del set (e l’impressione è di essere in una delle parodie canore del Quartetto Cetra). Dal terzo atto la regia decolla con movimenti di macchina sempre più cinematografici. Sino ad arrivare al finale, bellissimo, dove le potenzialità del cinema sono sfruttate in pieno. Adriana, avvelenata dai fiori inviatele dalla Contessa, sua rivale in amore, delira. E in questo delirio Maurizio non è più una presenza, ma un ricordo sfuocato, una voce che risuona nel palco vuoto, immerso nel nero, un corpo che (grazie al montaggio cinematografico) prende le sembianze di quello di Michonnet: in lui Adriana vede l’uomo che ha amato e che l’ha tradita, con lui lotta, nelle sue braccia si abbandona. Momento intenso, pugno nello stomaco perché rende fisico un abbandono.

Momento riuscitissimo grazie all’intensità degli interpreti. Su tutti Kristine Opolais, al suo debutto nel ruolo di Adriana, sempre convincente nei panni dell’attrice/diva, ma anche (forse soprattutto) nelle commovente fragilità di una donna che ama. Dizione italiana impeccabile tanto nel canto quanto nel declamato, voce a tratti spigolosa, ma piena di indubbio fascino, sempre incanalata nel solco della musica, mai esibita in un verismo ostentato e fine a se stesso. Stessa cifra interpretativa che Nicola Alaimo imprime al suo Michonnet umanissimo, tutto ripiegato su se stesso, che si tiene dentro amore e dolore e lo canta sottraendo piuttosto che aggiungendo, scarnificando la sua voce piena sino a farla ombra. Che veglia su Adriana. Ombra, come diventa, col tempo, Maurizio al quale offre il suo slancio vocale Luciano Ganci, alle prese con un ruolo impervio (come tanti del verismo italiano di inizio Novecento), sul quale il tenore romano ha la meglio, riuscendo anche, nel finale, a commuovere. Veronica Simeoni fa una principessa di Bouillon meno roboante del solito, più donna macchinatrice, sottile stratega che tesse le fila della vicenda in un gioco dei potenti che vede Adriana soccombere. O forse no, visto quello sguardo levato in alto che chiude il film – che se fosse stato tutto come il finale sarebbe stato perfetto.

Orchestra, come in sala di incisione, in platea. La si vede solo all’inizio, poi scompare. Sul podio Ascher Fish che non calca la mano sulle tinte forti e restituisce nella sua grande capacità narrativa – il gioco del teatro nel teatro funziona sempre – la partitura di Cilea. Che racconta di noi che «siamo povera gente».

Nelle foto @Andrea Ranzi (Casaluci-Ranzi) Adriana Lecouvreur in vesrione film