Spotti, sul podio grazie alle lezioni della nonna

Il direttore d’orchestra ventisettenne è a Bari con Elisir Dalle prime note sul pianoforte della nonna all’opera lirica per il musicista lombardo che per amore vive a Catania

Se va indietro con i ricordi non riesce a non vedersi «con uno strumento musicale in mano». E non riesce a non sentire la musica che ha sempre accompagnato le sue giornate, quella musica classica e lirica che gli ha fatto conoscere la nonna Annamaria, «diplomata in Conservatorio a Parma, amante dell’opera, pianista e direttrice di coro. Se ne è andata lo scorso anno». La voce giovane e squillante di Michele Spotti si increspa nel ricordare la nonna materna che è stata la sua prima insegnante di musica. «La mia è una famiglia di architetti, mamma, papà e mio fratello lavorano in studio, nessuno è musicista, ma la musica in casa non è mai mancata: i concerti alla radio e in televisione, gli spettacoli al Teatro alla Scala». E le prime lezioni di pianoforte con la nonna. «Da lei ho preso anche i gusti musicali. E sin da piccolo volevo salire sul podio, così, dopo aver studiato violino e pianoforte a Como per mettere le basi di questa professione, ho frequentato i corsi di Daniele Agiman al Conservatorio di Milano» racconta Michele Spotti, nato a Cesano Maderno, in provincia di Monza e Brianza, nel 1993. Lo fa da Bari dove dopo il lockdown si torna a fare l’opera lirica dal vivo con L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti: la prima è venerdì 11 settembre, sul palco lo spettacolo di Victor Garcia Sierra ispirato all’immaginario visivo di Fernando Botero. «Elisir è un po’ la mia opera del cuore perché ha segnato il mio debutto sul podio: era il 2014 e lo dirigevo a Milano al Rosetum con Voceallopera dove mi hanno notato i vertici di AsLiCo che mi hanno poi chiamato per il progetto OperaDomani».

Da allora non è più sceso dal podio, Michele Spotti, realizzando il sogno di bambino di fare il direttore d’orchestra.

«Sono stato sempre affascinato da questa figura, dal potere che esercita, nel bene e nel male, impugnando la bacchetta: fa scaturire la musica, crea suoni, colori, tiene insieme orchestrali, coristi e cantanti. Detta così sembra facile, ma non lo è per nulla. Tanto più che questa professione è piena di momenti di sconforto».

Ne ha avuti?

«Certo. Negli anni di studio, quando è capitato di non avere feeling con qualche insegnante, nelle prime produzioni quando da neodiplomato ti trovi a lavorare con persone più grandi di te, in orchestra e sul palco, che a volte guardano con diffidenza i giovani, tanto più se devono guidarli e dar loro consigli su una materia come la musica che frequentano da anni. L’esperienza mi ha aiutato ad avere le spalle grosse, ma anche a conquistarmi sul campo credibilità e autorevolezza. La vita di direttore d’orchestra, poi, è una vita spesso in solitaria, in giro per il mondo, lontano dagli affetti».

E come si fa a non mollare?

«Lavorando di autoconvincimento per arrivare a obiettivi importanti e non buttare i tanti sacrifici fatti durante gli anni di studio. E poi la famiglia gioca un ruolo fondamentale: io sono stato davvero fortunato prima con i miei genitori che mi hanno sempre aiutato economicamente negli studi e sostenuto psicologicamente e ora con mia moglie Francesca, musicista anche lei, che capisce cosa significa fare questa professione, che a volte ti logora a livello umano. E pensare che quando ci siamo conosciuti e innamorati non sapevamo di essere entrambi musicisti. Appena possono i miei e mia moglie mi seguono nei miei spostamenti e quando non è possibile ci aiuta la tecnologia con le videochiamate».

Dalla Brianza a Catania, città di origine di sua moglie, dove ora vivete…

«Francesca insegna al liceo musicale in città, la sua professione la vuole lì. La mia mi porta ad essere nomade e a stare a casa poche settimane all’anno tanto che è quasi indifferente il posto, contano gli affetti. Così da quando siamo sposati, il 21 luglio 2018, abbiamo deciso di vivere a Catania».

In questo 2020, causa Covid, è stato parecchio a casa. Come ha passato i mesi di lockdown?

«Quando è iniziata la pandemia ero in Francia, a Lione: avevamo fatto la generale di Rigoletto, ma il virus ha bloccato tutto alla vigilia della prima: è stato come avere tra le mani un panino gustoso in mano e non poterlo mordere e assaporare. Sono rientrato a casa e la musica non mi ha mai abbandonato, anzi mi ha salvato perché non è passato giorno senza che mi mettessi a suonare. Ho avuto modo, per una volta, di scegliere io cosa approfondire, senza scadenze lavorative all’orizzonte: ho studiato Il signor Bruschino di Rossini, ho ripreso in mano Nabucco di Verdi al quale sono riuscito a dare finalmente una visione unitaria dopo averlo studiato a lungo e ho affrontato Madama Butterfly di Puccini. Ho ripreso poi a suonare  il violino duettando con mia moglie che è oboista. Francesca mi aiuta sempre nello studio di una partitura, dandomi consigli sui fiati, una famiglia di strumenti che conosco meno avendo studiato violino e pianoforte. Consigli che in prova si rivelano più che validi».

Come è stato tornare a fare musica dal vivo?

«Abbastanza strano perché la gioia è tanta, ma c’è anche il timore nell’affrontare una situazione che è come un castello di carte, fragile che può crollare da un momento all’altro. La sensazione, in prova, è quella di camminare sulle uova ma poi, una volta salito sul podio dove mi sento a casa, si ritrova la passione e la bellezza di questo lavoro che ti fa mettere da parte qualsiasi timore».

La sua agenda si è subito riempita…

«… dopo Lione mi sono saltati un Rigoletto ad Hannover e Barbiere di Siviglia a Nancy. A Martina Franca hanno ridisegnato il festival e ho diretto Il borghese gentiluomo di Richard Strauss».

Ci sono stati poi i concerti a Pesaro, al Rossini opera festival dove è tornato per il quarto anno consecutivo.

«La prima volta ho diretto Il viaggio Reims nel 2017, ero stato scelto direttamente da Alberto Zedda prima della sua scomparsa. Dopo i concerti di questa estate dirigerò a novembre Il barbiere di Siviglia, nell’appendice autunnale dell’edizione 2020 del Rof e tornerò il prossimo anno con Il signor Bruschino, impegni guadagnati con il sudore la fatica, cosa che per me è la riprova che con la passione e la dedizione si possono ottenere risultati importanti».

Ora tocca a Donizetti e al suo Elisir d’amore al Petruzzelli di Bari.

«Molti guardano con sufficienza alla scrittura donizettiana, ma sbagliano: in Elisir, ad esempio, c’è una grande ricerca timbrica che a Bari si avvertirà ancora più marcata perché abbiamo una versione quasi “cameristica” per via delle regole di distanziamento con otto primi violini e ventisette coristi, cosa che permette di sbalzare al meglio le sfumature di cui la partitura è piena».

Chi sono i suoi direttori di riferimento?

«Sicuramente Leonard Bernstein per quello che è stato non solo come direttore, ma come musicista totale. Amo poi le incisioni di George Szell. E mi piace lo stile di Gianandrea Noseda con il quale ho lavorato e del quale apprezzo la capacità di trasmettere a orchestra e palcoscenico una grane energia capace di fare la differenza durante l’esecuzione».

E gli autori che ama avere sul leggio?

«Per quel che riguarda l’opera Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti e Giuseppe Verdi. Ho poi un forte amore per Vincenzo Bellini, alimentato forse anche dal fatto di abitare a Catania dove c’è una venerazione per questo autore che spero di dirigere presto. Sul fronte sinfonico su tutti Johannes Brahms e Jean Sibelius».

Sinfonica o lirica?

«Non si può scegliere, cinquanta e cinquanta perché una è propedeutica all’altra. Penso che un direttore d’opera possa dirigere egregiamente un brano sinfonico, ma ritengo che non sempre sia vero il contrario perché il melodramma è una grande scuola: per questo occorre affrontare diversi repertori e non smettere mai di essere curiosi. Io cerco di farlo, sin da quando ero piccolo».

Nella foto di apertura @Clarissa Lapolla Michele Spotti sul podio a Martina Franca

Nella galleria ritratti di @MarcoBorrelli e @Studio Amati-Bacciardi