In Duomo un Requiem che parla di speranza

A Milano alla presenza del Capo dello Stato Mattarella Chailly ha diretto la Messa di Verdi per le vittime del Covid primo appuntamento della Scala dopo il lungo lockdown

Le porte del Duomo sono spalancate. Dalla piazza, assolata e insolitamente affollata (è venerdì pomeriggio, settembre è ormai partito), si vedono le vetrate di fondo. Colori che, in controluce, tagliano il buio della navata centrale. Poi, all’improvviso un rumore sordo. Alle 19.30 i portoni di bronzo istoriati della cattedrale si chiudono. Il sole resta fuori.

Manca ancora un’ora all’inizio della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi che il Teatro alla Scala con la bacchetta del suo direttore musicale Riccardo Chailly porta tra le volte gotiche per ricordare le vittime della pandemia di coronavirus, ma l’anticipo è imposto dalle norme di sicurezza. Perché in Duomo, a fare memoria insieme ai milanesi di chi è morto colpito dal Covid, ha voluto esserci anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella. E l’attesa davanti alle vetrate da cui dall’esterno filtra la luce del tramonto, per molti si fa preghiera. C’è silenzio che senti addosso tra le navate del Duomo, lo stesso silenzio che per settimane si è avvertito, assordante, nella città solitamente caotica. In lontananza, oltre l’altare, gli strumenti che accordano e i solisti che scaldano la voce.

Seicento persone, tutte adeguatamente distanziate sulle panche della chiesa: per entrare sono passate dai metaldetector e dai termoscanner, accompagnate poi ai propri posti (e non ci si può muovere per la tracciabilità) dalle maschere del teatro con mascherina e visiera di plexiglass. Tra i milanesi che ivenerdì 4 settembre si sono messi in fila (duecento gli inviti, quattrocento i biglietti distribuiti gratuitamente tramite il sito del Duomo ed esauriti in pochi minuti) ci sono il ministro della Cultura Dario Franceschini, il presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia e il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana.

Per ultimo entra Mattarella. Non parla, si siede nella navata centrale, parte di una comunità di cui l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini si fa voce. «Voce di questa terra lombarda per condividere le ferite, la fierezza, la preghiera» spiega l’arcivescovo guardando a una Milano che «presenta questa sera le sue ferite, i suoi troppi morti, i troppi malati. E le ferite di questa terra sono anche le umiliazioni dell’impotenza, mentre c’era una certa presunzione di onnipotenza. Le ferite di questa terra sono state anche le meschinità delle beghe, le banalità dei discorsi, le contrapposizioni pretestuose, mentre sarebbe necessaria una alleanza, una coralità per affrontare insieme le sfide e le lacrime di questo tempo». Ma non solo. Perché «questa terra esprime questa sera anche la sua fierezza. Perché può essere fiera per l’eccellenza della sua gente, per gli eroismi che anche nei momenti drammatici si sono moltiplicati, per le forme di solidarietà che hanno fatto tutto il possibile per non lasciare nessuno da solo» dice cercando con lo sguardo medici, infermieri e volontari che durante l’emergenza sono stati in prima linea e ieri sera erano in Duomo ad ascoltare il Requiem.

Mascherina obbligatoria per tutti. La indossano anche gli orchestrali (una novantina, ognuno ha il proprio leggio per rispettare le distanze) arrivati in Duomo a piedi attraversando la Galleria insieme ai coristi (anche loro una novantina, seduti uno a due metri dall’altro ai lati dell’altare) per il concerto che segna la ripartenza della musica dopo più di sei mesi per il Teatro alla Scala. Che, dice il sindaco di Milano Beppe Sala, «stasera ha lasciato la sua meravigliosa sede per eseguire il Requiem in Duomo, casa della Chiesa ambrosiana, casa dei milanesi, casa dei valori che fanno di Milano una città pronta a partecipare alla costruzione della nuova normalità». Perché, riflette il primo cittadino, «questa è una serata dominata dallo strazio della perdita, ma anche dalla volontà comune di segnare una nuova strada per la nostra comunità».

Lo dice la musica di Verdi (scritta nel 1874 per la morte di Alessandro Manzoni ed eseguita per la prima volta in una chiesa, in San Marco) che parte lenta, un sussurro dei violoncelli e il Requiem aeternam per invocare il riposo eterno, il Kyrie per chiedere pietà e poi il terremoto sonoro del Dies irae che si perde nel riverbero delle navate (casse per amplificare il suono e schermi per permettere a tutti di vedere) insieme alle trombe del giudizio del Tuba mirum. Krassimira Stoyanova, Elina Garanča, Francesco Meli e René Pape (intensi e, a tratti, commoventi) intonano il Lacrymosa, l’accorata invocazione dell’Hostias e il Libera me, Domine finale per chiedere a Dio la liberazione dalla morte eterna.

Perché il Requiem di Chailly, meditativo e intimo, si fa preghiera. Una preghiera commossa per le vittime del Covid, certo, ma anche un viaggio dentro noi stessi che ci trasforma: il dolore che grida, la paura della morte che sembra prevalere sino all’accorato Libera me raccontano i dubbi dell’uomo, ma anche il suo affidarsi. Il Requiem trova così nella cornice del Duomo (un ritorno alle origini, verrebbe da pensare) la sua collocazione ideale, in un’eco che corre tra le navate avvolgendo di sacro chi ascolta. E per una volta non conta l’esito artistico (che, comunque, è notevole, perché la lettura di Chailly mette in luce la scrittura complessa verdiana e lo fa rivestendola di una pietà e di un abbandono disarmanti), non servono pagelle per cantanti e musicisti. Perché la musica si fa preghiera.

Lo ricorda anche monsignor Delpini. «Questa terra questa sera canta e prega perché sa di avere un Padre nei cieli che ascolta e consola. Canta e prega perché sa di non bastare a se stessa, di non potersi dare la vita e di non poter sconfiggere la morte. Canta e prega perché i cristiani professano la certezza che la morte è stata vinta e che la solitudine non è l’inevitabile destino». Certezza che Chailly – che porterà il Requiem in Santa Maria Maggiore a Bergamo il 7 settembre e nel Duomo di Brescia il 9 – vede nella musica perché «l’ultima parola, quella del Libera, me, Domine finale, è una parola di speranza» dice il direttore appena spenta l’ultima nota, la bacchetta stretta tra le mani, appoggiata alla fronte, gli occhi chiusi. Un gesto accompagnato da un silenzio meditativo che poi si scioglie in un applauso lungo dieci minuti.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala la Messa da Requiem in Duomo

Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 5 settembre 2020