La vendetta degli ultimi nel Rigoletto di Martone

Nuovo allestimento al Teatro alla Scala dell’opera di Verdi che il regista porta nell’oggi ispirandosi al film Parasite Sorprendente finale che scatena i dissensi tra il pubblico Sul podio Gamba, cantano Enkhbat, Sierra e Pretti

Due uomini del 118, tuta arancione con le strisce grigie catarifrangenti, portano via il cadavere di Gilda, avvolto nel sacco nero dove l’hanno infilata, dopo averla pugnalata, Sparafucile e Maddalena. Rigoletto è disperato, ha da poco soffocato in gola il suo grido «ah la maledizione», perché si è compiuto quell’augurio sinistro che gli aveva lanciato addosso Monterone dopo che lui lo aveva deriso. Piange tra le braccia di una donna che lo abbraccia: lui indossa un paio di jeans, lei una tuta sintetica e un golfone di lana preso forse in un emporio della solidarietà. Non pensa più a niente Rigoletto, ha perso la figlia, la sola cosa (bella) che aveva (e che ha sprecato, lui, perché la colpa è solo sua). Non gli interessa più nulla. Nemmeno sapere che a pochi passi da lui, nella villa del duca, si sta compiendo quella vendetta che lui aveva progettato, ma che non si è realizzata. Anzi, che gli si è ritorta contro, perché nel sacco nero, per uno strano gioco del destino, è finita sua figlia Gilda e non il suo padrone, quel duca che ora muore, pugnalato dalle sue puttane, dalle ragazze che ha sfruttato biecamente pagandole per andare a letto con lui o per farsi incatenare e frustare nella sua dark room – inevitabile per loro la bulimia, la schizofrenia (traumi che ci vengono sbattuti in faccia all’inizio di questo viaggio nell’inferno) come rifiuto, anche fisico, di questo. Ucciso, quest’uomo ricco che si diverte con i suoi amici in feste eleganti a base di sesso e droga, in una strage della follia (o della disperazione) compiuta dai diseredati, dai Parasite – perché la citazione è chiara, tratta dal film del sudcoreano Bong joon-ho. Due ragazze pugnalano il duca, gli altri si avventano sugli amici della corte, Marullo, Ceprano, Matteo Borsa che resta con gli occhi spalancati sul nulla e il viso schiacciato contro la parete di vetro della balconata della villa. Il loro sangue sporca le pareti della villa. Inquietante, inaspettata e disturbante visione. Sulla quale, mentre il quadro va a nero, piovono i «buu» e i «vergogna» della sala, pienissima (e senza obbligo di mascherina), del Teatro alla Scala (perché le contestazioni, questa volta, non sono venute solo dal loggione).

Succede tutto in una manciata di secondi, mentre si spengono le note di Giuseppe Verdi dopo la frase di Rigoletto «ah la maledizione». Le note di Rigoletto, tornato a Milano in un nuovo, nuovissimo allestimento dopo ventotto anni (non se ne faceva uno nuovo dal 1994, quando andò in scena quello iperclassico di Gilbert Deflo con le scene di Ezio Frigerio e i costumi di Franca Squarciapino, rimasto in repertorio sino al 2019) firmato da Mario Martone. Accolto da sonore contestazioni a fine serata, proprio mentre al Maxxi di Roma i suoi film Qui rido io e Nostalgia si guadagnavano ben quattro Nastri d’argento, entrambe le pellicole premiate con un Nastro per la regia e uno per la sceneggiatura (realizzata da Martone con la moglie Ippolita Di Majo). Contestazioni che hanno beccato (seppur in misura meno sonora e accesa) il direttore Michele Gamba al quale Martone, nella tempesta di applausi misti a fischi durata una decina di minuti,  ha voluto stringersi davanti al sipario rosso – e la mente è andata subito ad un’immagine analoga, arrivata al termine di un’altra serata burrascosa, quella del 7 dicembre 2009 con Daniel Barenboin ed Emma Dante, direttore e regista di una contestatissima Carmen, abbracciati davanti al sipario scaligero.

Eppure il Rigoletto di Martone è quasi (un quasi, però, non da poco) sempre fedele a Verdi, alle intenzioni del compositore che voleva fare un’opera politica e di denuncia sociale, scegliendo come base per il libretto il testo censuratissimo di Victor Hugo Le roi s’amuse. Martone fa uno spettacolo politico – «in tempi di Ruby ter è questo il Rigoletto più adatto» dice una signora mentre applaude convintamente regista e direttore, cercando di coprire con i suoi «bravi!» i «vergona! fuori di qui!» che arrivano da un palco di prim’ordine. Martone fa uno spettacolo di denuncia sociale, impietoso e crudo – la scena finale, certo, ma anche il ritratto che il regista fa delle ragazze sfruttate dal duca: una si siede sul water, la testa china a terra a nascondere il volto con i capelli, l’altra si contorce su una brandina, in preda a un attacco che nessuna medicina può sedare. Si chiede, Martone – e dice anche a noi di provare a chiedercelo per essere fedeli al senso ultimo dell’arte – chi è (chi potrebbe essere) la corte del duca oggi, chi è (chi potrebbe essere) Rigoletto, chi sono (chi potrebbero essere) le persone che il potere sfrutta, persone che vivono nell’ombra, come Gilda e Rigoletto o Monterone, Maddalena, Sparafucile.

Martone si dà una risposta, «una delle tante possibili» aveva avvertito il regista napoletano presentando lo spettacolo. Rigoletto è il pusher del duca, quello che gli procura droga e ragazze (lo vediamo prendere una busta di coca quando, dopo il duetto con Guida, deve uscire in piena notte da quella casa dei bassifondi che ospita le ragazze pagate dal duca), un mezzo delinquente per natura e per necessità che cerca, però, di darsi un tono, di essere amico dei potenti (ma non riuscirà mai ad esserlo, ce lo dice prima di tutto Verdi con Hugo). Uno di quei personaggi del mondo di mezzo che all’apparenza sono puliti, trasparenti, ma che dentro sono neri, che covano rabbia e desiderio di riscatto… che passa drammaticamente attraverso la violenza. Il duca è un ricco di oggi, meglio, un arricchito, che ha in mano il potere – se lo è preso con la complicità degli amici che adesso mantiene in questa villa kitsh, tra elementi di design e pezzi di statue antiche –, ma che preferisce passare il suo tempo tra donne, droga e alcool, in una bulimia di piacere fine a se stesso. D’accordo, idee, situazioni già viste in diversi Rigoletto, i cortigiani che sniffano non sono certo una novità – e d’altra parte le analisi delle acque reflue di Milano, piene di tracce di polvere bianca, dicono (e non è certo una buona notizia) che ormai la coca non è più solo la droga del weekend, ma stupefacente di uso quotidiano, ci stupiamo se lo vediamo in scena?. Idee, situazioni già viste, certo, ma che funzionano nella costruzione dello spettacolo di Martone – funzioneranno anche tra 28 anni, quando si farà un nuovo allestimento? o sono destinate a invecchiare presto? Certo disturbano.

Così come disturba sapere che il mondo dei ricchi e quello degli ultimi sono contigui, confinanti, due facce della stessa medaglia: la scenografia (non bellissima da vedere, in verità) di Margherita Palli è montata su un girevole che, muovendosi rivela i due ambienti (come nell’Andrea Cheniér inaugurale del 2017, sempre firmato Martone), la villa e i bassifondi. Nessuno è migliore o peggiore dell’altro, Martone non dà un giudizio morale. Due mondi comunicanti, divisi da una porta, davanti la facciata dorata e dietro (sul versante di legno e ferro) la miseria, che è poi la sostanza di certe facciate tirate a lucido. Idea interessante che, però, si rivela essere anche il punto debole dello spettacolo, perché fa vacillare l’impianto narrativo del libretto di Francesco Maria Piave. Quando nel primo atto dalla festa a casa del duca passiamo (con un movimento di girevole) nella casa dove Rigoletto tiene segregata Gilda, siamo davanti ad un unico ambiente; una cucina povera, un bagno con wc e lavandino, sedie spaiate, poltrone usurate, brande e scale di ferro. Un ambiente unico dove tutti vedono tutto, dove si apre la grande porta che comunica con la villa ed entrano le ragazze che gli scagnozzi del duca pagano. Gilda è lì, le vede. Vede il via vai. E non sa chi sia il duca (che pure entra in quello stanzone a scegliersi le ragazze), non le viene in mente che il giovane che l’ha seguita in chiesa e l’ha sedotta potrebbe essere il “datore di lavoro” del padre? Non sa davvero cosa Rigoletto faccia per sopravvivere? eppure quella busta di coca la prende dal cassetto davanti ai suoi occhi. Limite dato, però, più che dalla regia, dalla scenografia che, forse, con una diversa suddivisione degli ambienti, a scomparti, a celle, avrebbe potuto funzionare drammaturgicamente meglio.

Quello che funziona magnificamente è la recitazione. Martone, apprezzato e capacissimo regista di cinema, lavora su ogni interprete come se gli stesse facendo un primo piano con la macchina da presa (Rigoletto andrà il 27 ottobre su Rai5 e dal 26 giugno sarà disponibile in streaming all’estero su Medici.tv). Ogni personaggio è caratterizzato al meglio. Rigoletto nel suo cercare sempre di intrufolarsi tra il potere, nel suo difendere quel potere che è riuscito a conquistarsi con una prepotenza quasi animalesca. Gilda ragazza determinata, ribelle, per nulla disposta ad accettare il destino che gli altri le vorrebbero disegnare, capace di tenere testa (da adolescente quale è) al padre. Il duca ne esce come un personaggio viscido per il quale, ancor meno del solito, provi simpatia, indifferente all’altro, concentrato solo sul suo piacere; tessitore di trame nell’ombra… tanto che il rischio (calcolato) è che si confonda tra la corte, per fare, inosservato, i suoi giochi. Sparafucile è un delinquente di periferia che ha una sorella che potrebbe essere in qualsiasi strada ai bordi della tangenziale – li veste molto realisticamente Ursula Patzak. Monterone è un barbone, che continua a sfregarsi il braccio, segno di quella maledizione, di quella contaminazione che prenderà poi Rigoletto – bella, toccante nella sua immobilità la scena con Monterone seduto alle spalle di Rigoletto mentre il gobbo (che qui, però, non ha la gobba) prende coscienza del tradimento del duca, della violenza sulla figlia e del suo essere destinato al fallimento, specchio uno dell’altro. Ma ogni persona che compare in palco, dai coristi ai figuranti, proprio per la caratterizzazione che Martone ne fa, è un tassello irrinunciabile di un racconto asciutto, asettico come un reportage di cronaca che nulla concede (o dovrebbe concedere) al sentimento, un racconto dal respiro cinematografico – ma purtroppo, contrariamente a quanto annunciato da Martone, l’intervallo non arriva dopo il secondo atto, dando un senso all’arco temporale della prima parte della narrazione, ma dopo il primo, perché per due minuti si sarebbero sforati i limiti sindacali previsti per le prestazioni dei musicisti.

A dare corpo a questi personaggi un cast ideale, di cantanti che sanno farsi interpreti credibilissimi. Appena entra in scena e apre bocca con il suo «In testa che avete signor di Ceprano?» Amartuvshin Enkhbat riempie la Scala con la potenza della sua voce, bella, piena, che ha la pasta e il colore delle voci di una volta. Timbratissima. Musicale. Una voce, quella del baritono della Mongolia, che ti fa capire ogni singola parola, parola scolpita, verdianamente, nel suono. Cosa che fa anche Piero Pretti, un duca dallo squillo limpido e dalla musicalità avvolgente, che sa sempre portarti dentro il racconto. Nessuna spavalderia gratuita nel personaggio che Pretti costruisce con grande intelligenza musicale, ma la sottile perfidia di chi nell’ombra tesse le trame a suo vantaggio. Gilda ha il colore brunito di Nadine Sierra, anche lei (sul piano musicale, su quello scenico le cose vanno diversamente) più meditata e meno giovanilmente intemperante. Tecnica solidissima che le consente di affrontare senza pensieri acuti e cadenze della parte. Non così cupo, come da tradizione, ma ben centrato e ben cantato lo Sparafucile di Gianluca Buratto. Marina Viotti, Anna Malavasie Rosalia Cid offrono il loro colore di bronzo a Maddalena, Giovanna e alla Contessa di Ceprano. Fabrizio Beggi è un dolente e cupo Monterone, Costantino Finucci, Francesco Pittari e Andrea Pellegrini puntualissimi come Monterone, Borsa e Ceprano.

Tutti (e dispiace dirlo, davvero) hanno dovuto fare i conti con una direzione, quella di Michele Gamba, trentanovenne di casa alla Scala tra podio, pianoforte e conferenze, che si è rivelata non sempre attenta al canto specie nella scelta di alcuni tempi – e qualche scollamento si è sentito con i solisti, ma anche nel quartetto del terzo atto e nel metronomicamente micidiale primo quadro. Il Rigoletto di Gamba (che eroicamente un’ora prima del debutto, quando un direttore ha necessità di concentrarsi su quello che dirigerà, si è reso disponibile a tenere l’incontro per il pubblico per sostituire la relatrice malata) è un Rigoletto in bilico tra fedeltà al testo verdiano (diversi gli acuti e le puntature spazzate via) e tradizione (qualcosa il direttore lo ha concesso agli interpreti, come il la bemolle del finale della Vendetta), in bilico tra colori corruschi e tempi sostenuti e atmosfere rarefatte, scelte più meditate e intellettualmente pensate. Un Rigoletto quello di Michele Gamba interessante per intuizioni musicali che fanno riflettere (ma che non sempre l’orchestra, però, coglie e asseconda pur suonando bene) e suggeriscono strade interpretative che, se imboccate con coraggio e decisione (senza paura di scontentare o i tradizionalisti o i progressisti) possono davvero portare ad una lettura sorprendente e innovativa della partitura.

Nella fedeltà a Verdi. Che in quella strage finale immaginata da Martone come il riscatto degli ultimi, sembra essere stata messa per un attimo da parte. Perché quella vendetta che Rigoletto non è riuscito a compiere (lo dice il ripiegamento dei «ah la maledizione») e che ora avviene, va contro il senso della scrittura musicale. Perché Verdi scrive e fa cantare al duca il si naturale che chiude La donna è mobile solo nella terza e ultima ripresa della canzone, perché quella è la vittoria del signore sul giullare. L’acuto arriva lì e non prima quando Rigoletto lo sente e scopre che nel sacco nero non c’è il duca, ma Gilda. Chi vince, in Verdi, è il duca, non Rigoletto. Qui, nello spettacolo di Martone, politico, da denuncia sociale sono (o almeno sembrano essere) gli ultimi. Sarà vero? La vendetta può essere davvero una vittoria? Il sangue sulle pareti, che vediamo prima di piombare nel buio, ci dice di no.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Rigoletto