Scala, è scherzo od è follia il Ballo di Marelli

Delude la regia del nuovo allestimento dell’opera di Verdi, ma musicalmente riuscita grazie alla bacchetta di Luisotti e alle voci di Meli, Radvanovsky, Salsi, Matochkina e Guida

Volendo anche lasciare da parte le (ahimè tante) ingenuità – vogliamo chiamare così, ingenuità appunto, lo sgambettare da avanspettacolo di deputati e ufficiali che euforici per l’idea di andare travestiti da pescatori nell’antro di Ulrica improvvisano un balletto da vecchia passerella buttando una gamba di qua e una di là? vogliamo chiamare così, ingenuità appunto, i remi che ondeggiano avanti e indietro e il timone che spunta mentre Riccardo canta la sua canzone Dì tu se fedele il flutto m’aspetta? vogliamo chiamare così, ingenuità appunto, la sedia gestatoria sulla quale Riccardo viene issato con tanto di mantello bordato di ermellino quando anche Ulrica riconosce il governatore sotto il travestimento da pescatore? siamo solo al primo atto e l’elenco potrebbe continuare… – volendo anche lasciare da parte le (ahimè tante) ingenuità di cui è disseminato il nuovo allestimento di Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi in scena al Teatro alla Scala, c’è un momento, uno solo, sufficiente per dire che la regia di Marco Arturo Marelli è quantomeno fuori fuoco rispetto alla profondità della partitura verdiana – e del libretto, sì anche del libretto, di Antonio Somma che qui viene initulmente epurato (il solito cancel culture… politically correct) e Ulrica non è più «dell’immondo sangue dei negri», ma «del demonio maga servile». C’è un momento chiarificatore. Un momento che arriva alla fine. Quando tutti hanno pronunciato il sinistro «Notte d’orror» che suggella la tragica vicenda. Arriva quando la musica corre rapida verso l’accordo finale, roboante, emotivamente sconquassante. In quel frangente (vuole il regista) le guardie che hanno bloccato e smascherato Renato subito dopo la pugnalata fatale a Riccardo lo portano fuori scena, per condurlo (così immagini vedendo la scena) in carcere. In attesa di un processo. Eppure un attimo prima Riccardo morente aveva detto il suo rivoluzionario «tutti assolve il mio perdono». Tutti, i congiurati e il suo assassino, l’amico diventato poi nemico Renato.

«Tutti assolve il mio perdono». Frase di un grande uomo di Stato, di un regnante (il sovrano Gustavo III nelle vicende storiche che hanno ispirato l’opera dove il re svedese, per motivi di censura, è diventato un immaginario governatore di Boston) illuminato. Di un uomo che non risponde alla violenza con altra violenza e che mette in atto la rivoluzione pacifica del perdono. Eppure le guardie conducono in carcere Renato, privandolo del perdono di Riccardo che, dunque, Marelli non contempla nella sua regia, preferendo una pur lecita (e sempre necessaria) giustizia. Ma perdendo così l’occasione – specie in tempi di guerra come quelli che da troppo stiamo vivendo – di dire, una volta di più, la (necessaria e disarmante) modernità di Verdi. Che parla di perdono.

Lo fa nel Ballo, opera che nel titolo non identifica un protagonista preciso, non Rigoletto non Luisa Miller non Otello, ma cristallizza un momento preciso, quello (culminante nel dipanarsi della trama dell’opera) del ballo mascherato dove avviene l’assassinio e dove Riccardo offre a tutti (anche a noi, in un certo senso, in una sorta di catarsi collettiva) il suo perdono. Titolo asettico, quasi da cronaca nera. Perché Ballo, certo, è la storia di un assassinio premeditato, una sorta di reportage in presa diretta sul luogo del delitto di “come sono andate le cose” che, in quello che potrebbe essere un lungo flash back, accende i riflettori sulla violenza – che non si insinua solo nell’uccisione di Riccardo, ma che serpeggia anche nel rapporto tra Renato e Amelia, drammaticamente attuale se pensiamo agli episodi genericamente catalogati come femminicidi (certo, qui è solo premeditato, non si consuma). Un reportage dove l’amore sembra bandito – anche se nel secondo atto c’è il più bel duetto d’amore wagneriano mai scritto (e a scriverlo con la concisione di cui solo lui è stato capace è il genio di Verdi!). Un racconto che si fa lucida analisi dell’animo umano, dove Verdi (ci) mette a nudo, smascherando miserie e celebrando (con il suo stile asciutto – e forse per questo ancora più efficace) grandezze di cui l’uomo è capace.

C’è, nel Ballo verdiano, il potere e il nodo della sua gestione, della sua amministrazione. C’è il conflitto tra ruolo pubblico e vita privata. C’è l’amore, inseguito, ma anche messo da parte, rifiutato, castrato. C’è la violenza, c’è la sopraffazione. C’è la superstizione, c’è quel mondo occulto che ancora è in grado di fare seguaci – e oggi non sono per forza santoni o cartomanti dal retrogusto romantico quelli che plasmano menti e cuori, oggi si chiamano coach, guru, influencer… mediatici, social e dunque più tollerati e accreditati dalla società rispetto alle maghe che distillavano pozioni in sinistri antri. Cose che, però, non ci sono (così come non c’è il perdono rivoluzionario) nel Ballo raccontato da Marco Arturo Marelli (svizzero di Zurigo, di casa alla Staatsoper Vienna, al suo debutto scaligero che oltre alla regia firma anche scene e costumi). Racconto che resta in superficie, cristallizzato in una (compiaciuta) visione estetica nella scena (di bella fattura, indubbiamente) tutta sui toni del blu: una grande scatola con una fuga prospettica che si perde nel nulla (il vantaggio innegabile è che fa da cassa acustica per le voci) sulle cui pareti sono dipinte volte barocche in una vertiginosa visione che nel corso dello spettacolo si scompone e ricompone dando forma a spazi che più che fisici, reali sono mentali. Le quinte sghembe evocano la casa del governatore, l’antro di Ulrica abitato da una grande roccia ovale, l’orrido campo popolato di pietre e corvi fossilizzati, la camera da letto di Renato e Amelia dove troneggia un letto sfatto e la sala del ballo che è poi il semicerchio di palchetti della Scala che si materializza sul palco, in un gioco di specchi con le mezze luci che si accendono in sala (stratagemma ruffiano che funziona sempre) e ci tirano dentro la perenne illusione del teatro nel teatro. Tanto più che Riccardo “gioca” con un teatrino settecentesco (a evocare, forse, la personalità artistica del Gustavo III che ispirò il personaggio verdiano), lo fa all’inizio dell’opera e alla fine si aggrappa a questo suo “giocattolo” mentre la morte, in una visione che sembra uscire dal Settimo sigillo di Bergman, avanza suonando il violino.

Una delle tante ingenuità dello spettacolo (e ci aggiungiamo Renato che nel terzo atto si attacca alla bottiglia, violento anche a causa dell’alcool salvo poi dire alla moglie un edulcorato «rea ti festi» anziché lanciare il cruento «sangue vuolsi») . Vogliamo chiamarle così, ingenuità, o piuttosto propendere per una palese e malcelata presa in giro del melodramma italiano? Perché a tratti, durante lo scorrere dello spettacolo, sembra di essere davvero davanti ad una caricatura dell’opera con tic e caccole a volontà, con gesti triti e ritriti (e tutti prima o poi durante lo spettacolo si tolgono il cappotto e lo gettano a terra – e c’è chi lo fa più e piu volte) , ma soprattutto senza alcuno scavo psicologico dei personaggi, lasciati completamente nelle mani dei cantanti – e questo, forse, potrebbe essere un bene, ma se teatro musicale deve essere occorre anche il teatro, non basta la musica. C’è chi ci riesce magnificamente, perché dotato di talento e grande intelligenza scenica (Francesco Meli, Sondra Radvanovsky e Luca Salsi, i tre protagonisti) e c’è chi naufraga – scenicamente, intendiamoci. Come Julia Matochkina che fa un’Ulrica vocalmente interessante e a fuoco nei colori, ma teatralmente generica e già vista; come Federica Guida, voce bella, piena, mozartiana al punto giusto per Oscar, ma troppo personaggio da commedia dell’arte nelle movenze arlecchinesche con cui svolazza intorno a Riccardo e Renato. Caricature insopportabilmente di gusto retrò sono il giudice claudicante di Costantino Finucci, il Samuel e il Tom sinistramente sogghignanti di Sorin Coliban e Jongmin Park e il marinaretto (perché così è vestito) Silvano di Liviu Holender che in più, rispetto ai colleghi, è parecchio fuori fuoco anche nel canto. Nonostante la direzione tesa e appassionata di Nicola Luisotti, interprete solido e sempre affidabile, attento in ogni momento al canto e al dialogo tra buca e palcoscenico, che restituisce immediata e senza sovrastrutture la partitura del Ballo(ben suonata dall’orchestra scaligera e ben restituita dal coro di Alberto Malazzi) nella sua complessa bellezza, disegnando un’arcata emotiva che dai tempi meditativi del preludio corre verso il serrato e incalzante e drammatico finale.

Luisotti, arrivato a due settimane dalla prima a sostituire Riccardo Chailly all’inizio delle prove musicali, ha dovuto fare i conti con vari stop and go nel cast per Covid e malanni di stagione. Ma è riuscito a dare unità e compattezza alla sua lettura. Grazie anche ai tre protagonisti, interpreti verdiani (e non solo) oggi di riferimento. A cominciare da Francesco Meli che con Riccardo, un suo cavallo di battaglia con il quale va sempre a segno, festeggia il suo ventesimo ruolo alla Scala. Meli ancora una volta mette in campo la sua voce bella, il suo fraseggio scolpito e la sua tecnica solidissima (eccezionale il salto di tredicesima nella canzone del primo atto, che resta nella memoria e fa passare in secondo piano qualche stanchezza sul finale) per disegnare un uomo piegato al peso del potere, costretto a rinunciare all’amore. Stesse caratteristiche che da sempre mette in campo Luca Salsi, baritono che plasma la parola musicale verdiana in un canto umanissimo, struggente e, qui, sporcato di vita, anche di durezza nel disegnare un Renato ruvido, inquietante, sinistro capace di richiamare alla mente tanti uomini che ancora oggi fanno violenza sulle loro donne, sulle loro mogli – ecco la modernità di Verdi che un interprete che voglia essere tale, interpretando i grandi classici alla luce del nostro presente, sa evidenziare. Un Renato al quale tiene magnificamente testa l’Amelia di Sondra Radvanovsky che, nella drammatica scena del terzo atto, disegna una donna mai ripiegata su se stessa e sulla sua presunta colpa, mai rassegnata al suo destino, tigre che combatte. Come questa Amelia fa in tutta l’opera, accesa dalla passione e dal carisma della Radvanovsky, straordinaria cantante (d’accordo, la voce può anche non piacere, de gustibus…) capace di passare da un volume che riempie la sala a pianissimi emozionanti e vibranti di sentimento, interprete di temperamento, di intelligenza scenica spiccata, sicuramente il miglior soprano drammatico oggi in circolazione – ascoltare le sue regine donizettiane, aspettare il disco della sua Turandot incisa con Pappano per credere.

La sua voce, i suoi acuti, nel drammatico, ma anche rassicurante finale, sono lame taglienti che penetrano nella carne mentre il canto di Salsi si riempie di dolore, di umanissimo rimorso e la voce di Meli si fa balsamo di perdono, di speranza per un presente di lacerazione e conflitti.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Un ballo in maschera