Scala, l’Ariadne di Strauss piantata in (N)asso

Riuscito a metà l’allestimento dell’opera ispirata al mito diretta da Michael Boder e con la regia di Bechtolf

La teoria più poetica – e dunque la più bella, anche se forse non la più veritiera – sulle origini del significato di «piantare in asso» risale al mito. A quello di Arianna, piantata da Teseo (e come dargli torto, verrebbe da dire con un po’ di cinismo maschilista politicamente scorretto visto la tendenza al lamento di lei) in Nasso: la N che identifica l’isola greca delle Cicladi sarebbe poi caduta, secondo gli studiosi dell’evoluzione della lingua, e sarebbe rimasto solo l’«asso». Arianna, sola, perduta e abbandonata… in Nasso. Piantata in asso. Che è poi la sensazione, quella di un’Ariadne auf Naxos sola, perduta e abbandonata in Nasso, che fa l’opera di Richard Strauss in scena sino al 3 maggio al Teatro alla Scala dopo il debutto la sera del Venerdì Santo – ma era proprio necessario? Non si poteva, volendo per forza tenere aperto il teatro e la biglietteria, programmare una Passione, un Requiem, una Messa di cui la storia della musica è piena? Un’Ariadne lasciata un po’ a se stessa. Piantata in (N)asso tra un Don Giovanni e un Ballo in maschera, messa in cartellone quasi come riempitivo, programmata in tempi di piena pandemia e dunque titolo ideale (orchestra piccola, niente coro, solo solisti…) per quello che appariva come un futuro incerto (nel giro di tre mesi sono tre le Ariadne in Italia, a Bologna e Firenze, oltre a questa di Milano), oggi, però, un po’ meno incerto… nonostante la guerra alle porte dell’Europa.

Ariadne torna dunque alla Scala a (soli) tre anni (quasi esatti) dall’ultima volta… ma non è un problema: l’opera è bella e si ascolta volentieri, le circostanze (programmazione in tempi di Covid) giustificano la scelta (d’altra parte si sono visti Traviate, Elisir, Barbieri a ripetizione in questi mesi che un’Ariadne in più non fa male). Piuttosto, forse, occorreva crederci un po’ di più. E non “abbandonarla” questa Ariadne come spettacolo di transizione (da teatro di repertorio, verrebbe quasi da pensare vista la compagnia con nomi in locandina che di Ariadne ne hanno cantate un bel po’…), non piantarla in (N)asso con un allestimento (già andato in scena al Festival di Salisburgo e alla Staatsoper di Vienna) esteticamente bello, ma senz’anima. Che non aggiunge nulla all’affascinante complessità del testo letterario e musicale di Hugo von Hofmannsthal e Strauss e che non offre nemmeno una lettura nuova e illuminante dell’eterno gioco del teatro nel teatro che è l’essenza di questo divertissement, dove un dramma come Arianna a Nasso deve convivere con una farsa all’italiana con maschere della commedia dell’arte nella festa nel palazzo di un ricco aristocratico viennese.

Un gioco di teatro nel teatro che in Strauss diventa una riflessione (chi studia direbbe meta-letteraria e meta-musicale) sul valore dell’arte (deve essere impegno o puro svago?) e sul suo ruolo nella società (un lusso che si possono concedere solo i ricchi?). Riflessione che, però, nello spettacolo di Sven-Erich Bechtolf rimane in superfice, al livello del teatro nel teatro appunto (con i tic delle primedonne, le scaramucce tra compositore e interpreti, il cliché del parrucchiere e del maestro di ballo gay), senza affondare nell’attualità, senza chiedersi (e chiederci) chi sono oggi gli attori e i commedianti, chi è il ricco signore che per un capriccio (e mancanza di tempo) impone che dramma e farsa vengano fusi insieme. Resta uno spettacolo di buona fattura, con una cornice esteticamente bella, quella della ricca casa viennese della prima metà del Novecento (ma che per un certo gusto retrò potrebbe benissimo essere anche contemporanea), disegnata da Rolf Glittenberg (e che potrebbe andare bene anche per un Rosenkavalier, per una Salome o una Elektra da teatro borghese) e abitata da personaggi elegantemente vestiti da Marianne Glittenberg. Bella e funzionale nella prima parte, nel prologo, meno nella seconda, nell’opera. Perché la platea con i ricchi spettatori resta sul fondo del palco e la rappresentazione si svolge in proscenio con i cantanti che, naturalmente, si rivolgono a noi spettatori dando le spalle al pubblico della finzione scenica – bastava ruotare di 45 gradi la scena e il gioco era fatto. Ma soprattutto perché l’opera, l’Ariadne auf Naxsos contaminata con la farsa, non viene in realtà messa in scena (Luca Ronconi aveva immaginato Nasso come fosse L’isola dei morti di Arnold Böcklin), ma restituita quasi in forma di concerto, ambientata da Bechtolf introno a tre pianoforti mezzi diroccati e sghembi (e sui coperchi si sprecano le scivolate di Zerbinetta e dei commedianti che girano in monopattino) che dovrebbero essere gli scogli di Nasso e la grotta dove si rifugia Arianna. L’effetto straniante della contaminazione tra i generi, così, si perde. Tutto si appiattisce e anche l’apparizione di Bacchus (che entra in mezzo al pubblico della finzione scenica) perde di forza, non ha nulla di misterioso e sacrale (nessuna trasfigurazione finale verso l’eternità di Ariadne) e non si palesa come il deus ex machina che ci si attende per la soluzione della vicenda.

Strauss e Hofmannsthal sono teatro. Puro. All’ennesima potenza. Dunque l’idea di un’Ariadne in forma di concerto potrebbe sembrare stridere, ma potrebbe essere anche stimolante. Controcorrente. Una sfida, certo. Da cogliere, perché no. Se ad evocare il mondo raccontato in parole e musica ci fosse una lettura musicalmente trascinante e illuminante e (totalmente) calamitante della partitura. Cosa che non riesce a Michael Boder, noto come sensibile e raffinato interprete straussiano, ma che qui non va oltre una onesta esecuzione, un compito portato a termine diligentemente, ma nulla di più. Boder, nato in Germania a Darmstadt proprio come Bechtolf, sembra andare cauto, prudente, sembra non accendere di passione la musica, mettendo quasi una sordina a Strauss, ai suoi colori cangianti con il risultato di appiattire il tutto verso un grigiore che non rende giustizia alla bellezza della partitura – l’orchestra della Scala suona comunque bene, con begli assoli delle prime parti.

Partitura che Krassimira Stoyanova conosce alla perfezione (l’ultima Ariadne della Scala era lei e sarà lei Ariadne a Firenze con Daniele Gatti sul podio in giugno) e restituisce magnificamente, con una voce bella e sontuosa, dolente nel lamento della donna abbandonata, accesa di passione negli slanci della donna amata che riama Bacchus. Che ha la voce wagneriana di Stephen Gould, qui, però, in evidente difficoltà con acuti e sopracuti, a volte al limite dell’intonazione e spesso calante sin dall’iniziale «Circe» con il quale appare ad Ariadne. Peccato. Erin Morley, applauditissima dopo la sua aria, ha invece tutte le carte in regola per la scrittura pirotecnica che Strauss affida a Zerbinetta, così come ideale per il Komponist è la voce di Sophie Koch (anche se la resa non è sempre al massimo). Markus Werba è un perfetto (musicalmente e teatralmente) Maestro di musica. Lunga la locandina con le ninfe di Caterina Sala, Rachel Frenkel e Olga Bezsmertna, l’Arlecchino di Rafael Fingerlos, lo Scaramuccio di Jinxu Xiahou, il Truffaldino di Jongmin Park e il Brighella di Leonardo Navarro sino all’Haushofmeister di Gregor Bloéb, attore austriaco che fa gli onori di casa come maggiordomo. Di questa Ariadne piantata in (N)asso.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Ariadne auf Naxos