Scala, non fa scandalo Thaïs al Moulin Rouge

Applausi per l’opera di Massenet diretta da Lorenzo Viotti Nessuna contestazione per la regia dal segno forte di Py che rifà un quadro di Rops con una donna nuda in croce

È finito (sembra essere finito) il tempo dello scandalo. E non è necessariamente una buona notizia. È finito (sembra essere finito) il tempo delle pietre di inciampo, di quegli ostacoli (traduzione letterale dal greco) che ti si piantano improvvisamente in mezzo ai piedi, ti fanno cadere e ti fanno sbattere la faccia a terra. Facendoti anche male. Scioccandoti, scandalizzandoti, appunto. Pietre, ostacoli, scandali, che ti costringono a pensare, sembrano aver perso forza, sembrano aver perso il loro potere rivoluzionario – quale scandalo più grande, quale pietra di inciampo più potente (e rivoluzionaria) della croce, di un dio (che si è fatto uomo) che muore (ma poi risorge)? È finito, o meglio, sembra essere finito il tempo in cui gli scandali facevano rumore. Perché siamo anestetizzati, sembra dire l’assoluta tranquillità con cui al Teatro alla Scala è passata la scena (ma non solo quella) “blasfema” di una venere nuda che scalza Cristo dalla croce nella pantomima ispirata a La temptation de Saint Antoine di Félicien Rops durante la Thaïs di Jules Massenet. Anestetizzati. E non è necessariamente, appunto, una buona notizia. Siamo anestetizzati nei confronti dello svuotamento (di senso e di significato) del sacro, della sua de-sacralizzazione, dell’uso manipolatore di simboli. Moltiplicatosi nell’era della televisione, dei social, della globalizzazione. Ma certo non una novità, perché vecchio come l’arte. Tanto che il finto battesimo sul palco di Sanremo di Achille Lauro è solo l’ultima (anzi la penultima perché è arrivata poi quella di Thaïs) dose di anestetico che rischia di renderci tiepidi se non inerti di fronte allo scandalo.

Undici minuti di applausi, trionfo per tutti, con i Viotti-supprter scatenati ad acclamare il direttore d’orchestra svizzero, catalizzatore di like su Instagram. Non una contestazione ai seni scoperti e ai glutei ben in vista (certo, la tv ci ha anestetizzato anche su questo) delle ballerine, ai due nudi integrali maschili apparsi nella scena del sogno di Athanaël – che, diciamolo, non stonavano rispetto alla lettura espressionista del regista Olivier Py, per la prima volta alla Scala. Nessun rumoreggiamento nemmeno dopo la scena tanto temuta della crocifissione ispirata a Rops – temuta, sicuramente, tanto che con il programma di sala è stato distribuito un cartoncino con il quadro del pittore simbolista belga (sul retro un’altra tentazione di Sant’Antonio, questa volta di Matthias Grünewald) per dare al pubblico i riferimenti iconografici di ciò che si sarebbe visto sul palco. Eppure il “tempo tecnico” per fare qualche rimostranza c’era, perché la scena arrivava a fine d’atto e, si sa, nei piani alti della Scala sono abilissimi a cogliere questi momenti, incuneandosi nei silenzi e nel buio del cambio scena per dissentire. Stavolta nulla.

Anestetizzati dalla de-sacralizzazione del sacro. Oppure convinti e pensanti e approvanti (sembrano dire i molti applausi) di fronte a regie di impatto sempre più forte. Quella di Olivier Py sicuramente lo è. Nel raccontare il contrasto tra corpo (che non è  solo carne) e spirito – tema che attraversa da sempre il pensiero filosofico e teologico e l’arte che ad esso attinge – trasportando questo conflitto (scandagliato a lungo dalla psicanalisi) in un mondo onirico, eccessivo, espressionista, fatto di segni forti, tracciati con un pennarello a punta grossa – a tratti anche esteticamente brutto da vedere, volutamente? Un disegno dai contorni netti, decisi. Forse anche troppo nella divisione manichea di bene e male e nella lettura semplificatrice di peccato come solo carnale e sessuale – e la figura del filosofo Nicias, interpretato da un Giovanni Sala truccato come Damiano dei Maneskin, perde un po’ della sua forza di possibile terza via, filosofica appunto, tra immanenza e trascendenza.

Rosso e nero, dove il nero sostituisce il bianco del candore associato solitamente allo spirito. Perché Py, sarcasticamente, stende un’ombra mesta sulla conversione di Thaïs che va incontro quasi controvoglia alla sua nuova vita di preghiera e di espiazione che pure, dicono le parole del libretto di Louis Gallet e la musica di Massenet, dovrebbe aver scelto convintamente. Tanto che il finale è nero, drammatico, senza speranza. Nessuna estasi. Athanaël fugge inghiottito da un nero cupo, mentre Thaïs resta sola, morta, riversa a terra.

Nero (nell’umore) come è tutto lo spettacolo, terzo titolo della stagione (la prima targata interamente Dominique Meyer) del Teatro alla Scala, immaginato da Py che porta Thaïs al Moulin Rouge – molti i rimandi al film di Baz Luhrmann, coreografie comprese, ideate da Ivan Bauchiero e affidate a Emanuela Montanari e Massimo Garon sulla struggente Meditation. La cortigiana di Alessandria d’Egitto esercita, si converte e muore sullo sfondo di un Novecento sull’orlo del baratro: si balla il valzer mentre il mondo va a picco, ma se Emanuela Montanari e Massimo Garon sono intensi nel passo a due imbastito sulla musica della Meditation in chiusura della prima parte, le coreografie di Ivo Bauchiero non lasciano il segno, simili a tante che si vedono oggi nei varietà tv – ancora assuefazione. Un Novecento dove i monaci cenobiti di Palémon e le monache di Albine sono una sorta di esercito della salvezza che sfama i poveri, dove la casa di Thaïs (come quella di Satine nella pellicola con Nicole Kidman) è un teatro, un cabaret che lo scenografo (e costumista, sempre dal segno forte e marcato, volutamente volgare) Pierre-André Weitz ci mostra nella sua nudità di quinte teatrali: Nel mezzo del cammin di nostra vita (omaggio/ricordo per Dante che mette Thaïs all’Inferno) la scritta che incornicia la facciata di questo teatro, una grande parete sulla quale si affacciano i camerini e il palcoscenico dove Athanaël vede materializzarsi il suo desiderio inconfessabile, evocato proprio dalla donna nuda in croce de La temptation de Saint Antoine di Rops – riferimento iconografico per pochi, raffinato, super ricercato… ma se l’arte deve spiegare se stessa, forse non è poi così diretta e popolare.

Tutto è teatro, artificio che si mostra nel dietro le quinte: praticabili che combinati in modo diverso disegnano gli ambienti del racconto, tutti in perenne movimento, a scorrere sul palco in una sorta di carrellata cinematografica. Teatro, cabaret infernale che sconfina nella vita. E non sai più cosa è finzione e cosa realtà sembra dire lo spettacolo allucinato di Py. Simbolista. Come il romanzo di Anatol France al quale Massenet si ispira. Come le pitture evocate in scena. Come il clima culturale del 1894 quando Thaïs andò in scena per la prima volta a Parigi. Stralunato, allucinato, certo, come quel 1942, nel pieno della follia della Seconda guerra mondiale, in cui l’opera andò in scena per la prima e unica volta alla Scala.

Un  violino struggente, un valzer vorticoso, un flauto diabolico, echi gregoriani. E poi la misericordia. Tutto nella musica di Massenet che Lorenzo Viotti dirige con mano salda e sicura, con gesto ampio e scenografico, con belle intenzioni che trovano perfetta corrispondenza nel suono morbido e pastoso dell’orchestra (l’assolo, intenso, della Meditation è affidato al violino di Laura Marzadori) capace di farsi voluttuoso e roboante, ma anche trasparente e immateriale. Suono che avvolge le voci dei protagonisti. Marina Rebeka è una Thaïs vocalmente impeccabile, acuti bellissimi, centri avvolgenti, gravi timbratissimi e quel giusto distacco interpretativo (perfettamente in linea con lo spettacolo) dal personaggio, come se lo vedesse da vari punti di vista, dall’esterno, per restituircelo nella sua complessità alla quale sta a noi dare unitarietà. Lucas Meachem offre il suo squillo baritonale ad un tormentato Athanaël, Giovanni Sala la sua bella pasta tenorile a Nicias. Non sbaglia un acuto la Charmeuse di Federica Guida, Caterina Sala e Anna Doris Capitelli sono Crobyle e Myrtale in body e guepierre.

Cantano. E dopo un po’ non ci fai più caso. Nessuno scandalo. Applausi per tutti. Ma non è necessariamente una buona notizia.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Thaïs