Scala, Romeo e Giulietta negli anni Trenta

I Capuleti e i Montecchi di Bellini diretti dalla Scappucci prima donna italiana a salire sul podio del Piermarini Regia di Adrian Noble, protagoniste Oropesa e Crebassa

Per lei un’accoglienza calorosa già all’inizio, quando entra in buca. Perché è lì, passate da poco le 20 del 18 gennaio 2022, che si sta scrivendo la storia, la storia della prima donna italiana che sale sul podio del Teatro alla Scala in 244 anni di storia, dal 3 agosto 1778 quando si inaugurò il Piermarini. Lei è Speranza Scappucci, musicista (perché prima di essere direttrice d’orchestra è stata pianista sensibile e preparata) romana, classe 1973. Prima donna italiana, appunto, a salire sul podio del Teatro alla Scala. È successo l’altra sera per la prima de I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini (secondo titolo della stagione scaligera 2021/2022, mancava dal 1987), produzione sulla quale la Scappucci è «salita in corsa», chiamata a dieci giorni dalla prima a sostituire Evelino Pidò, risultato positivo al Covid.

Atmosfera di festa. Ma, a dirla tutta, anche di normalità, di «nulla di strano» nel vedere una direttrice e non un direttore – le pioniere furono negli anni Trenta e Quaranta Sarah Caldwell, Eve Querler e Antonia Brico, poi sono arrivate Marin Alsop, Simone Young, Julia Jones, Susanna Mällki. Perché alla fine, conta il talento. E la Sacppucci ha dimostrato (non solo l’atra sera) di avene. Talento, tecnica, nervi saldi. Emozione inevitabile, certo. Poi la tensione si scioglie. Così come la musica di Bellini, marziale, squadrata all’inizio nella lettura della Scappucci (quanti salti sul podio!),  poi sempre più morbida (belcanto come da tradizione nelle dinamiche e negli accenti e il gesto diventa aereo, talora a mani nude), ma anche increspata di inquietudini (pienamente romantiche, che proiettano in avanti, verso il melodramma italiano che verrà, questa musica) che culminano nel tragico finale. Identico a quello raccontato da Shakespeare in Romeo e Giulietta.

Identico giusto il finale perché per il resto il libretto di Felice Romani reinventa completamente la vicenda degli amanti di Verona rispetto alla tragedia shakespeariana. E quando inizia l’opera siamo già nel mezzo della storia, il patatrac è fatto, Romeo e Giulietta, figli di due famiglie in guerra (il titolo pone l’accento proprio su questo, Capuleti contro Montecchi), si sono già innamorati, il «Romeo perché sei tu Romeo» è già stato detto, il bacio dato e richiesto indietro sotto il balcone è già scoccato. Non solo. Romeo non uccide Tebaldo (che qui non è più il cugino di Giulietta, ma l’uomo che il padre scegli come suo sposo – in Shakespeare era Paride), ma il fratello di Giulietta. E il regista Adrian Noble, a lungo direttore artistico della Royal Shakespeare company, ci mostra l’antefatto sulle note della sinfonia.

Preludio di uno spettacolo ambientato negli anni Trenta. Atmosfere alla Novecento di Bernardo Bertolucci (scene in stile razionalista di Tobias Hoheisel) con alcuni momenti di forte impatto come l’apparizione di Giulietta in abito da sposa (costumi in bianco e nero di Petra Reinhardt) o il duetto tra gli amanti che Noble ambienta in una stanza/scatola (che fa intelligentemente anche da camera acustica e dove la dormeuse è la stessa su cui alla fine vedremo Giulietta finta-morta) dentro la quale i due sono imprigionati, quasi insetti sotto una campana di vetro che sbattono continuamente contro le pareti facendosi solo del male e non trovando una via di uscita. Momenti riusciti (in un’astrazione tipica delle riletture shakespeariane di oggi) accanto al alcune (inspiegabili) cadute di stile come il balletto dei camerieri con le torte alla festa di nozze o l’apparizione della tomba di Giulietta in mezzo a una foresta che fa subito Bella addormentata nel bosco.

L’azione (al netto di una non ben chiara distinzione tra Capuleti e Montecchi, che si differenziano solo per la mascherina – perché il coro canta con le ffp2 – nera o rossa) arriva lineare e leggibile, recitata benissimo e in modo convincente. Lasciando tutto lo spazio necessario alla musica (bellissima, tanto che i più grabdi direttori si sono voluti confrotntare con questa partitura, da Claudio abbado a Riccardo Muti a Daniele Gatti) di Bellini. Restituita magnificamente dalle interpreti, Lisette Oropesa, emozionante Giulietta (acuti ammalianti, facilissimi, luce screziata nella voce, magnifica nell’Eccomi in lieta vesta e nella scena straziante della morte apparente), Marianne Crebassa, combattivo Romeo in bretelle (la voce è bella, al netto di acuti corti, ma al mezzosoprano francese sembra mancare quella marcia in più che fa la differenza). Applauditissime per dieci minuti – come Michele Pertusi (impeccabile Lorenzo), Jinxu Xiahou (Tebaldo dallo squillo importante) e Jongmin Park (cupo Cappellio) – insieme a Speranza Scappucci che, scarpe rosse e giacca di paillettes nera, con Bellini ha scritto un pezzo di storia. Che già sa di normalità.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Marianne Crebassa e Lisette Oropesa iNe I Capuleti e i Montecchi