Con il Turco di Rossini la Scala torna al 100%

Torna l’opera di Gioachino Rossini diretta da Diego Fasolis in scena solo una sera prima delle chiusure per il Covid Rosa Feola grande protagonista, regia di Roberto Andò

In questo tempo (ancora) strano che stiamo vivendo è (quantomeno) straniante entrare al Teatro alla Scala per Il turco in Italia di Gioachino Rossini. Perché l’effetto è quello di un salto all’indietro di venti mesi, sino a quel 22 febbraio 2020 che ha (inevitabilmente e indubbiamente) segnato uno spartiacque nella nostra vita. Nostra, perché forse, tra qualche decennio per altri non sarà più così – noi non abbiamo, oggi, la percezione di cosa fu la Spagnola, eppure fece morti e danni. Lo spartiacque del Covid. Il 22 febbraio al Teatro alla Scala c’era in cartellone Il turco in Italia. Prima rappresentazione di un nuovo allestimento con la regia di Roberto Andò. Prima e unica perché il girono dopo, sul palco del Piermarini non andò in scena il previsto Trovatore perché un’ordinanza della Regione Lombardia (la più colpita, da subito) chiudeva teatri e cinema. Allora il Turco debuttò in pieno allarme coronavirus, in un tempo in cui le strette di mano e gli abbracci erano ancora all’ordine del giorno nel foyer.

Oggi, dopo mesi di distanziamento, di mancati abbracci e mancate strette di mano, le distanze tornano ad accorciarsi. E in teatro si torna a stare seduti vicini, grazie alla decisione del governo di riportare (dall’11 ottobre) la capienza delle sale al 100%. Alla Scala (dove sono già andati in scena a sala tutta in vendita Il barbiere di Siviglia e Madina) si riparte simbolicamente (ma i simboli hanno un grande valore, specie in periodi di crisi) dal Turco (una coincidenza che se si fosse pianificata non sarebbe venuta così bene). Si riparte da Rossini. Ma non dal Rossini comico (ma in realtà lo è? perché in ogni partitura, dietro il sorriso il pesarese ci mette sempre un filo di malinconia), piuttosto dal Rossini che mette come indicazione al suo Turco «dramma buffo». Due facce che stanno insieme nell’opera scritta nel 1814 proprio per la Scala su libretto di Felice Romani. Non ci si piega in due dalle risate nel racconto (a tratti anche troppo) metateatrale di un poeta, Prosdocimo, che deve trovare l’argomento per un dramma e si imbatte nelle vicende di Don Geronio e dalla moglie Fiorilla che corteggia (ed è corteggiata) del turco Selim sbarcato in Italia dove trova una vecchia fiamma, la zingara Zaida.

Effetto strano. Di salto indietro nel tempo. Di sensazioni che in questi mesi hai provato a chiudere in un cassetto, ma che in un momento, evocate dalla musica di Rossini (che risuonava quella sera quando in sala c’era anche qualcuno che oggi non c’è più) riemergono. Prepotenti? Non proprio. Malinconiche, meste. Ombreggiate e a trati sinistre. Perché tra i due Turchi c’è stata la morte. Il mondo (lo si voglia o no) è cambiato. In meglio? Forse no. E anche per questo con Rossini, una volta di più, si sorride amaro. Si sorride di noi uomini. In una sorta di esperimento di laboratorio come sembra essere la regia di Roberto Andò (sulla scorta del libretto dove Prosdocimo provoca situazioni per trovare l’argomento del suo dramma), lineare, essenziale – l’ha ripresa, con qualche aggiustamento, Emmanuelle Bastet, la scena è quella essenziale di Gianno Carluccio con botole che si aprono nel pavimento per far uscire i personaggi e spaccati di case che calano dall’alto mentre i costumi di Nanà Cecchi ammiccano allo sfarzo dell’età napoleonica. Che mette a nudo la solitudine di chi – l’intreccio è il classico lui, lei, l’altro… l’altra e l’altro ancora… – cerca (solo) amore. E questa volta, dopo il tempo dell’isolamento, lo si avverte ancora di più. Tanto che la ricerca del “divertimento” di Fiorilla e di Selim (e ti vengono in mente alcune app per incontri “extraconiugali”, come recita la pubblicità) ti fa sentire questo bisogno.

Incarnato, in scena, da una magnifica Rosa Feola, capace di crescere e maturare ad ogni interpretazione. Fuoriclasse del (bel)canto, artista raffinata che usa la voce come strumento per comunicare emozioni, sensazioni, stati d’animo dei personaggi di cui veste i panni. Questa volta è Fiorlilla,non una ragazza frivola, ma una donna in crisi che quasi si mette “alla prova” con Selim (ecco che torna l’esperimento di laboratorio) per tornare poi dal marito. Il soprano campano ha tecnica solidissima, gusto raffinatissimo, voce ammaliante e luminosamente malinconica, specie nella grande aria del secondo atto quando Fiorilla, scaricata dal marito don Geronio, canta la sua desolata disperazione. Quanti accenti, quanti colori in ogni frase… Cosa che non capita con Selim, il turco che arriva in Italia, personaggio che Erwin Schrott tratteggia molto sommariamente, con un canto sempre uguale, tendente (troppo) al declamato.

Eppure dal podio Diego Fasolis restituisce la musica di Rossini raffinatissima (solo nella Sinfonia qualche forte di troppo poteva far pensare a una pesantezza che aveva caratterizzato la sua lettura del febbraio 2020 – perché la compagnia è pressoché la stessa), cesellata, dipinta, resa in tutta la sua (sorprendente) bellezza, tanto che vorresti saltare i recitativi e saltare subito al numero successivo, in un susseguirsi incontenibile di pagine sublimi e ispirate – bello il basso continuo di James Vaughan al fortepiano e Simone Groppo al violoncello. E anche il meccanismo metateatrale, che a volte risulta troppo macchinoso, qui scorre liscio. Grazie all’eccellente Prosdocimo, il Poeta, disegnato da Alessio Arduini (nuovo ingresso nella compagnia del Turco), misuratissimo, simpaticissimo, musicalissimo. Alla fine strappa un grande applauso, come Giulio Mastrotoaro, un don Geronio ancora più saporito e gustoso, infallibile musicalmente nelle mitraglie di parole che Rossini chiede sempre, scenicamente misurato nel non eccedere nel tragiccomico. Antonino Siragusa (anche lui new entry) fa tripletta (dopo Italiana e Barbiere) e offre la sua voce squillante al personaggio (che appare meno centrale del soliti) di Narciso. Manuel Amati ha un timbro tenorile antico, di una leggerezza sognante per un Albazar (zingaro che è anche un po’ Arlecchino) che lascia il segno per simpatia, presenza scenica e bella musicalità; Laura Verrecchia regala a Zaida la sua voce bruna.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Il turco in Italia