La preghiera dell’uomo nel Requiem di Gatti

Al Festival Verdi di Parma intensa (ri)lettura del direttore della pagina che chiede ragione del dolore e della morte

Quasi non le senti. Dette così, con un filo di voce. Sul fiato. Restano quasi in gola, perché chi le pronuncia (forse) ha appena pianto. Parole che raccontano un addio, sussurrate a labbra socchiuse. «Requiem aeternam dona eis Domine». Una richiesta ad occhi bassi, perché rivolta a Dio. «L’eterno riposo dona loro Signore». Una preghiera. «Et lux perpetua luceat eis». Che si veste di infinito. «E splenda ad essi la luce perpetua». Parole che sembrano non voler uscire dalla bocca, per non dover far deflagrare il dolore della perdita.

Per ascoltare (per sentire) la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi diretta da Daniele Gatti a Parma devi fare silenzio. Dentro di te, prima di tutto. Devi lasciare fuori dalla testa, dall’anima, ogni cosa. Fuori anche dal corpo, perché ciò che ti scava dentro ti arriva, inevitabilmente, a fior di pelle. Trasuda. Devi, per un po’, sopire il dolore di una perdita. Devi mettere in un angolo la malinconia devastante di un inizio spento sul nascere. Ma devi anche silenziare la gioia di un sorriso ritrovato. Per fare vuoto. Per fare silenzio. Quel silenzio che, all’inizio del viaggio negli abissi dell’uomo che è la Messa da Requiem di Verdi secondo Daniele Gatti, si riempie degli accordi dei violoncelli che hanno il colore scuro di certe notti insonni, passate a chiederti (gli occhi spalancati sulla paura) il perché della morte. Silenzio che si riempie di quelle parole, «Requiem aeternam dona eis Domine», che non vuoi dire perché sai che, pronunciandole, lasceresti andare verso la «lux perpetua» chi vorresti tenere legato, anche solo nell’illusione (notturna) di una presenza.

Il Requiem risuona al Festival Verdi di Parma, cuore dell’edizione 2021, incastonato tra Un ballo in maschera (in forma di funerale, quello di Gustavo III che Jacopo Spirei trasfigura nel funerale di Graham Vick, regista scomparso a luglio di cui Spirei ha raccolto il testimone per portare a compimento questo allestimento) e Simon Boccanegra (che è una lunga marcia funebre verso la morte del protagonista, l’opera della solitudine secondo Michele Mariotti che la dirigerà). Umano, umanissimo il Requiem di Verdi nella lettura di Gatti che dirige tutto a memoria, sguardo in alto, gesto ascetico. E con la sua profondità capace sempre di offrirti nuovi sguardi interpretativi, il direttore milanese fa notare come dal canto in terza persona del Requiem, del Tuba Mirum e del Liber Scriptus si passi al canto in prima persona del Quid sum miser. Che è un dare del tu a Dio. Come fa Giobbe. Così le parole della liturgia funebre, si spogliano di un certo misticismo, per diventare eco di un dolore, per farsi preghiera che nasce dalla vita. Per nulla consolatoria. Una preghiera di chi, a denti stretti, chiede ragione del dolore a Dio. A darle voce un’eccellente Orchestra sinfonica nazionale della Rai, il Coro del Teatro Regio (intenso, verdiano, lo ha preparato Martino Faggiani ed è collocato in alto, nella balconata che si apre nella scenografia del Ballo, qui ideale camera acustica) insieme a Maria Agresta, Elīna Garanča, Antonio Poli e John Relyea. Voci tra le voci, non singole personalità che si impongono, anche prepotentemente, come nel melodramma, ma figure di un bassorilievo cesellato e rifinito, tessere di un mosaico che solo guardate da lontano ti rivelano il disegno.

Ed è così la lettura che Gatti offre, fatta di tante tessere, di tanti momenti belli, bellissimi in sé. Ancora più belli se messi uno accanto all’altro, in dialogo, perché rivelatori del disegno complessivo. L’austerità ieratica del Liber Scriptus, che risuona quasi come una visione profetica di Geremia o Ezechiele, la vertigine del gorgoglio (quasi infernale, come in un girone dantesco) dell’oboe dal quale emerge l’impasto di dolore e pietà del Rex Tremendae, la trasparenza cristallina dell’Hostias, offerta che sale al cielo come quella di Abele nella Genesi. Visioni dell’Antico Testamento. Che preparano al strada a «colui che viene nel nome del Signore». Perché il Nuovo Testamento irrompe con le visioni dell’Apocalisse, con il Dies Irae – diverso per ritmo, volume e intensità ogni volta che si ripete, dalla Sequenza al Libera me Domine finale – che è, appunto, una visione apocalittica, come l’Agnus Dei, come il Sanctus, il canto di coloro che «hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello». Le parole della Rivelazione. Alle quali l’uomo – ed ecco il disegno complessivo di un Requiem che diventa la preghiera accorata di chi non si rassegna al dolore – risponde.

Anche a muso duro – ed ecco che torna Giobbe – come nel Libera me Domine finale, dove si ascolta il Dies Irae più duro e tonante, dove il soprano non mette un punto di domanda al suo «Libera me, Domine, de morte aeterna», piuttosto un punto esclamativo, «Liberami Signore dalla morte eterna». Quasi a dire «me lo devi». Gatti qui chiede ritmo serrato, anche spezzato, quasi un declamato. Sul quale (prima di un applauso lungo dieci minuti e spento solo perché il direttore invita l’orchestra ad uscire) cade un silenzio irreale. Lo stesso dell’inizio. Cha hai fatto dentro (e fuori) di te. E che, te ne accorgi adesso, si è riempito del dolore di una perdita, della malinconia devastante di un inizio spento sul nascere, ma anche della gioia di un sorriso ritrovato. Si è riempito di vita. Trasfigurata dalla musica.

Nelle foto @Roberto Ricci i protagonisti della Messa da Requiem al Regio di Parma