Scala, il Barbiere di Muscato abita in teatro

Riccardo Chailly sul podio per l’opera buffa di Rossini ambientata dal regista dietro le quinte di un teatro Protagonisti Olivieri, Stoyanova, Mironov e Romano

Figaro abita in teatro. Il palcoscenico, quello dei teatri lirici di tutto il mondo, è la sua casa. Da sempre, si sa. Perché Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, da subito, dal 1816 quando andò in scena disastrosamente (colpa del gatto nero che attraversò la scena, dice qualcuno) sul palco del Teatro Argentina di Roma, è una di quelle “opere più opere” di tutte. Sinonimo stesso di melodramma. La nomini e chiunque ti sa citare almeno il «tutti mi chiedono, tutti mi vogliono» del Largo al factotum. Chi non ha mai fischiettato il «Figaro qua, Figaro là, Figaro su, Figaro giù», magari senza nemmeno sapere da dove venisse, ascoltato, forse, in qualche pubblicità o visto citato al cinema?

Oggi al Teatro alla Scala Leo Muscato, che firma un nuovo allestimento del melodramma rossiniano con la direzione di Riccardo Chailly – ed è la prima nuova produzione scaligera con il pubblico in sala dal febbraio del 2020, quando sul palco c’era un altro Rossini, quello de Il turco in Italia –, Leo Muscato prende alla lettera questa “cittadinanza” teatrale di Figaro. Perché, scrive il regista pugliese di Martina Franca, alla sua prima regia scaligera, «nel Barbiere ci sono due personaggi occulti, la musica e il teatro». La prima nell’opera di Rossini dove tutti hanno a che fare con le note: Almaviva che canta e suona chitarra e clavicembalo, Basilio che è maestro di musica, Rosina che studia canto, Bartolo che ha velleità artistiche… Il teatro, invece, nella commedia di Beaumarchais a cui il compositore di Pesaro si ispira e dove Figaro è un letterato, un drammaturgo caduto in disgrazia e costretto a reinventarsi, appunto, barbiere.

Ecco l’idea di Muscato, fare di Figaro un factotum… teatrale: macchinista, suggeritore, attrezzista, truccatore, servo di scena, parrucchiere… Tanto che la sua bottega, quella al «numero 15 a mano manca» con «quattro gradini, facciata bianca, cinque parrucche nella vetrina» e «per insegna una lanterna», è dentro un baule enorme, elegante, di quelli nei quali le compagnie di giro che scavallavano le montagne con le loro carovane mettevano i costumi. E ha un po’ quel sapore, il sapore del teatro di una volta, lo spettacolo di Muscato. Che trasporta le vicende dalla Siviglia del libretto a una sala da avanspettacolo, con il suo fascino decadente, dove Rosina è la vedette, Almaviva il direttore d’orchestra con ambizioni da compositore, Berta l’insegnante (tabagista e frustrata) di ballo, Bartolo l’impresario invaghito della primadonna… e forse anche il sindaco del paese, un po’ Peppone, visto che don Basilio, in abito talare, assomiglia tanto a don Camillo. Il sapore è questo. Ruspante, verace. Lo guardi e già sorridi. Sapore di un’Italia del dopoguerra (ma anche un po’ tardo ottocentesca viste le divise dei soldati in giubba rossa e fazzoletto blu al collo) raccontata dai costumi di Silvia Aymonino.

Raccontato attraverso il classico gioco di teatro nel teatro (il libretto di Cesare Sterbini, tra l’altro, dice commedia in due atti, dando una ben chiara connotazione teatrale alla partitura), rassicurante, visto molte volte, d’accordo, ma capace di strappare sempre il sorriso e lo stupore (e l’applauso) perché porta il pubblico dietro le quinte, nei meccanismi (sempre affascinanti) della macchina scenica. Un gioco che qui funziona alla perfezione, si adatta bene (e sulla carta, forse, non lo avresti detto) al racconto rossiniano – la partitura si ascolta pressoché integrale con qualche taglio, funzionale al racconto metateatrale, solo nei recitativi.

Si apre il sipario e siamo in una sala prove. L’orchestra (dove Fiorello è il primo violino) accorda, arriva Almaviva e dirige (e canta) la sua serenata. Rosina, in tutù e scaldamuscoli da ballerina classica, ascolta dal suo camerino che si materializza poi con i classici specchi contornati di lampadine accese. Figaro schiocca le dita e siamo nel retropalco con tanti bauli e nell’ufficio di Bartolo/impresario con tante locandine e stampe storiche. Poi arrivano altri specchi e siamo in sala ballo dove Rosina – che canta la sua Una voce poco fa – e un corpo di ballo di soli uomini in tutù romantico fanno la sbarra (coreografie ironicamente calssicheggianti di Nicole Kehreberger). Si abbassa un sipario verde e quando si rialza siamo sul fondo della platea. Che poi, con un cambio di prospettiva, vediamo dal palcoscenico dove Almaviva travestito (in talare) da don Alonso da’ lezione di canto a Rosina – bello e poetico il gioco di sipari e fondali che Muscato usa qui. Ambienti disegnati da Federica Parolini, illuminati (ma non siamo mai in piena luce) da Alessandro Verrazzi.

E alla fine, quando sulle ultime note Figaro sparisce nella buca del suggeritore, i cambi di scena sono sedici. Tornato nel ventre del teatro. Nel ventre della musica. Nella buca dove Riccardo Chailly fa un Rossini tutto trasparenze e leggerezza. Il direttore musicale scaligero rinuncia a qualche ruvidezza ruspante della tradizione (che forse, in uno spettacolo tra commedia dell’arte e avanspettacolo come quello di Muscato, avrebbe di certo avuto piena cittadinanza) per dare alla partitura (proiettandola così in avanti) quasi un sapore mitteleuropeo (e con certe atmosfere decadenti e crepuscolari della regia ci sta benissimo). La lettura di Chailly è chiara sin dalla celeberrima sinfonia dove i famosi crescendo emergono quasi da un magma sonoro e sono, oltre che di suono, crescendo di ritmo. Il barbiere del direttore milanese è fatto di contrasti, di ritmi meditativi soppiantati improvvisamente da vortici di suono, scarti quasi beethoveniani insieme a tagli di luce mahleriani. Che gettano anche un’ombra di inquietudine su una vicenda dove non c’è solo il sorriso.

Lo dice bene il personaggio “malincomico” di Bartolo, interpretato con misura e garbo (e una voce sempre timbrata e chiara) da Marco Filippo Romano, artista di spiccata intelligenza musicale. Come Maxim Mironov che con la sua voce tersa, lieve e non intaccata dal tempo, disegna ancora una volta un riuscito Almaviva, che ha il pregio di non essere mai sopra le righe. Perfettamente in parte Svetlina Stoyanova, voce dal bel colore e dal bel timbro di mezzosoprano (e pazienza se qualcosa va messo ancora a posto, d’altra parte è entrata in corsa nella produzione) e brillantezza scenica per fare una Rosina (aspirante ballerina) ragazzina, innamorata dell’amore. Mattia Olivieri debutta nella parte di Figaro che, a sentire qualche forzatura in alto, forse non gli calza ancora alla perfezione: il baritono mette comunque la sua verve scenica da modermo Arlecchino (ma a volte il rischio è di un eccessivo e affettato gesticolare) nel disegnare il factotum teatrale che, alla fine, strappa il caloroso applauso del pubblico – ancora distanziato in una sala al 50% della capienza. Nicola Ulivieri è un (abbastanza) corretto don Basilio, Lavinia Bini una Berta di classe, Costantino Finucci si sdoppia efficacemente tra Fiorello e l’Ufficiale.

Personaggi che abitano (e abiteranno ancora a lungo) in teatro. Il loro (e il nostro) mondo. Ritrovato, finalmente, con lo stesso sapore (o quasi) di un tempo.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Il barbiere di Siviglia