Como, il Barbiere diventa un’opera dark

Il titolo di Rossini apre la stagione di OperaLombardia Regia di  Stefanutti tra Frankesntein junuor e Sweeni Todd Protagonisti Chiara Tirotta, Gianni Giuga e Matteo Roma

«Si-può-fare!». Detto così, le tre parole ben scandite, lo sguardo fisso nel vuoto, come fa Gene Wilder in Frankenstein Junior. Sembra quasi di sentirla in mezzo alle note la celebre frase-icona diventata proverbiale, mantra per gli appassionati della pellicola (rigorosamente in bianco e nero) del 1974 di Mel Brooks. Sembra quasi di sentirla mentre Don Bartolo – sì uno dei personaggi del Barbiere di Siviglia, quello di Beaumarchais e poi di Gioachino Rossini – che sembra un licantropo, con lo sguardo fisso nel vuoto, attiva la sua infernale macchina della verità e, tra fulmini e saette, fa quasi un elettrochoc a tutti. Che si sentono «con la testa in un’orrida fucina», parole di Rossini e del suo librettista Cesare Sterbini. Perché Il barbiere di Siviglia che ha inaugurato la stagione del Teatro Sociale di Como e l’edizione 2021 di OperaLombardia (il circuito lirico che mette in rete con un cartellone condiviso Como, Cremona, Brescia e Pavia) è molto creepy (come si dice in gergo), quasi un racconto dell’orrore giocato tutto su un umorismo nero, gotico, a metà tra Sweeny Todd di Tim Burton (che non per nulla come sottotitolo ha Il diabolico barbiere di Fleet Street) e Frankenstein Junior, appunto.

La regia di Ivan Stefanutti (che firma anche le scene kolossal e i costumi che raccontano con fantasia un Ottocento pop) immerge il racconto in atmosfere dark. Si apre il sipario. E – nonostante il titolo dica che il Barbiere è di Siviglia – potremmo essere benissimo in una strada di Londra: una casa vittoriana, signori con mantello e cilindro che sembrano usciti da un romanzo di Charles Dikens, perfino uomini-gatto che ti fanno venire in mente il musical Cats di Andrew Lloyd Webber. Figaro che sembra il Johnny Deep della pellicola di Tim Burton e il Conte d’Almaviva che potrebbe essere uno degli sfortunati clienti del barbiere tagliagole. Gargoyles sulle colonne. Profonda Inghilterra, dunque. E poi un orologio sghembo e sovrastato da un drago che segna la mezzanotte. Inizia l’incantesimo – che è quello dell’opera, certo, che ritrova il suo pubblico dal vivo dopo mesi di chiusure; e a Como per l’occasione, per riaccogliere gli spettatori, niente fiori a ornare i palchi, ma piante verdi perché il teatro aderisce al progetto Foreste in piedi di LifeGate.

Inizia l’incantesimo – che dura il tempo di una notte, perché nel rondò finale (dopo due ore e mezza di musica dato che i tagli sono ridotti al minimo) Figaro «smorza la lanterna» di fronte al lieto fine con il matrimonio tra Rosina e il Conte. C’è la luna piena e il licantropo Don Bartolo si trasforma in un lupo mannaro. Ma non è il solo. Perché anche il Conte di Almaviva mette in atto le sue trasformazioni – prima un soldato ubriaco, poi un insegnante di musica capellone e con occhialini alla John Lennon – per conquistare Rosina. Dalla strada entriamo in casa, arabeggiante, spagnoleggiante, dal gusto kitsch. E popolata di strani personaggi: gli uomini-gatto che sono anche gli assistenti dello scienziato pazzo-licantropo-Don Bartolo; un mostro che sembra in tutto e per tutto Bubu del film Labyrinth di Jin Henson (il creatore dei Muppet), un po’ maggiordomo e un po’ carceriere-peluche di Rosina; una Bertra che gira sempre con in mano un’ascia, fuma un sigaro Avana e assomiglia in modo impressionante (con tanto di chignon) alla Frau Blücher di Frankenstein Junior; un notaio con la stessa gobba e la stessa andatura di Igor, sempre della pellicola di Mel Brooks.

Il gioco è fatto. Il Barbiere di Rossini, nella rilettura di Stefanutti, diventa un racconto gotico, si veste di una comicità ai limiti dell’assurdo e del nonsense, si traveste di un umorismo nero. E tutto sommato funziona. Perché sotto c’è Rossini. Perché c’è una storia che fa sempre sorridere – e lo senti nelle risate del pubblico nei punti clou. Funziona, perché la cornice dark regge. Anche se l’impressione, alla prova del palcoscenico, è che i cantanti siano un po’ lasciati a loro stessi (e alle loro tradizionali pose da opera lirica) nel loro essere (anche) attori: un’idea così forte, forse, avrebbe richiesto una maggior cura nella recitazione, una caratterizzazione ancora più marcata dei personaggi. Certo Stefanutti nel disegnare la sua regia deve fare i conti con le regole di distanziamento imposte dalle regole che a Como rispettano alla lettera anche in scena (in altri teatri il distanziamento sul palco sembra azzerato) – ma se tutti fanno tamponi ogni due giorni, monitorati costantemente per lasciare il virus fuori dalla porta, che senso ha il distanziamento in scena? Sembra quasi un pura formalità.

Seduto in platea, poi, vedi gli occhi dei cantanti, concentrati sulla musica. Perché spesso a cercare il direttore d’orchestra in buca: Jacopo Rovani dal podio stacca tempi, diciamo, alquanto originali dai trecento all’ora del duetto Figaro-Rosina alla lentezza del «Buonasera mio signore». E gli interpreti (che dovrebbero essere musicalmente liberi e sicuri per costruire i loro personaggi in scena) devono continuamente cercare il podio per non andare fuori dai binari. C’è chi ci riesce benissimo, perché ha tecnica e talento (Chiara Tirotta e Matteo Roma e Diego Savini su tutti), c’è chi è più in balia degli eventi che succedono in buca (Gianni Giuga e Tiberia Monica Naghi) dove si sente un Rossini più corposo (a tratti pesante verrebbe da dire) che leggero e trasparente affidato all’orchestra dei Pomeriggi musicali. Rovani ha bei momenti (la Tempesta del secondo atto su tutti), ma a tratti sembra in difficoltà nel tenere insieme il filo del discorso (il coro di OperaLombardia non è proprio impeccabile) tra buca e palcoscenico.

Dove Chiara Tirotta, con la sua voce piena e di bel colore, disegna una Rosina di carattere, perfettamente a fuoco nelle agilità, efficace nei momenti lirici. Dove Matteo Roma è un inedito Almaviva: il tenore veneto ha una voce (una elle più belle oggi in circolazione) che si sta rapidamente evolvendo verso una piena liricità (che a breve gli consentirà di affrontare alla grande il Verdi di Traviata e Rigoletto) e con questa voce (piena, corposa e al tempo stesso luminosa, svettante in acuto e timbratissima nei centri e nei gravi) disegna un Conte che non è il solito ragazzino innamorato, ma un uomo che sa il fatto suo e va dritto verso l’obiettivo (Rosina) che si è prefissato. Lo aiuta il Figaro di Gianni Giuga (tecnica efficace che sa piegare alla scrittura rossiniana la sua voce) capace di dominare la scena con simpatia e carattere. Diego Savini, autentico buffo rossiniano (ottima la sua aria e le sue agilità con il declamato a raffica), è perfettamente a suo agio nella parte del licantropo Don Bartolo, personaggio che il cantante umbro sbalza con verve scenica, ma soprattutto con una voce morbida e avvolgente. L’altro basso, Alberto Comes, disegna un Basilio in alcuni passaggi appare un po’ sottotono. Tiberia Monica Naghi è perfetta nei panni di Brta/ Frau Blücher, ma nella sua aria deve perennemente rincorrere i temi del podio. Pierpaolo Martella da efficacemente il la all’opera come Fiorello, Pietro Miedico è l’Ufficiale e Federico Pinna l’Ambrogio-yeti-maggiordomo muto.

Un Barbiere dark? Frankenstein-Don Bartolo ce lo dice: «Si-può-fare!».

Nelle foto @Alessia Santambrigio Il barbiere di Siviglia al Teatro Sociale di Como