Con Aida Muti “ritorna vincitore” in Arena

Il direttore torna sul podio a Verona dopo quarantun’anni aprendo il festival con l’opera di Verdi in forma di concerto Eleonora Buratto è la schiava etiope, Azer Zada Radames

Potrebbe essere una provocazione. Musicale, sicuramente. Ma a suo modo anche politica, politica e culturale. E forse, conoscendo il soggetto, (un po’) provocazione lo è. Il “soggetto” è Riccardo Muti che è tornato a Verona dopo quarantuno anni dalla sua unica volta in Arena: era il 7 agosto 1980 e il maestro diresse una Messa da Requiem di Giuseppe Verdi in memoria delle vittime della strage di Bologna, avvenuta pochi giorni prima. E per inaugurare l’edizione numero novantotto del festival lirico veronese il direttore d’orchestra napoletano ha scelto Aida, Verdi anche questa volta, da sempre uno dei cosiddetti titoli “da Arena”. Anzi “il” titolo per eccellenza, perché nel 1913 il tenore/impresario Giovanni Zenatello per il debutto della lirica nell’anfiteatro romano scelse proprio l’opera verdiana che dal 1992 ininterrottamente è in cartellone ogni anno. E più lo spettacolo è kolossal – l’Aida dorata di Franco Zeffirelli o la rievocazione dell’edizione del 1913 sui bozzetti originali di Ettore Fagiuoli –, più le trombe squillano nella scena del Trionfo e più il pubblico gradisce e applaude. In un clima ruspante con (quando si poteva, in epoca pre Covid) venditori di bibite ambulanti, come allo stadio.

Riccardo Muti – ecco la provocazione – ha, però, voluto un’Aida in forma di concerto. Certo, non è la prima volta, perché capita ormai raramente che il maestro diriga opere in forma scenica, troppo lungo il periodo delle prove, troppo complesso il rapporto con la nuova generazione di registi. Meglio concentrarsi solo sulla musica per un’Aida intima, miniata, cesellata e rifinita in ogni dettaglio come mai era capitato di sentire in Arena. Ecco la provocazione musicale, culturale e politica per dire – battaglia che Muti porta avanti da decenni – che Verdi, padre della patria per come ha saputo farla prima della politica e per come ha saputo (e sa) raccontarci nelle sue opere, non è musicista ruspante da zum pa pa, ma un compositore raffinatissimo – solo per restare ad Aida basta sentire le trame che tesse nel preludio, nelle danze, nel notturno del terzo atto, pagine che Muti restituisce incantate. Verdi drammaturgo e regista delle storie che racconta, basta mettersi “in ascolto” della partitura. E la storia, il dramma dei personaggi arriva lo stesso anche senza scene da kolossal. Sostituite sul palco dall’immagine di un deserto (la sabbia ororosso, il cielo che annuncia tempesta) che si staglia sul grande led wall di 400 metri quadrati che abbraccia il palco, struttura fissa che farà da scenografia (virtuale con proiezioni in 3D) a tutti gli allestimenti in programma quest’estate in Arena.

Orchestra, coro (che canta a memoria, senza spartito, talmente Aida l’ha impressa nella memoria e nella voce) e solisti schierati sul palco. Distanziati per rispettare le regole anti Covid, il podio e i solisti quasi in prima fila di platea, gli orchestrali sulla buca rialzata, i coristi sul palco, posizionati sulle pedane rosse che lo scorso anno correvano tutte intorno al perimetro dell’Arena. Tutti vestiti in nero, l’eleganza della sobrietà. Concentratissimi sulla musica. E quella di Aida nel 2021 compie 150 anni dato che la prima fu al Cairo il 24 dicembre 1871. Ricorrenza ben evidenziata in locandina, accanto al volto di Muti che ha ripreso in mano il capolavoro verdiano nel 2017, al Festival di Salisburgo, dopo quarant’anni che non lo dirigeva. E come in Austria (e nel 2019 a Chicago) l’Aida della maturità di Muti – il maestro il 28 luglio compie 80 anni – è un’Aida meditata, riflessiva, passata attraverso gli entusiasmi della gioventù che, ora, si possono guardare con l’occhio (saggio e disincantato) di chi ha vissuto la vita.

Così una provocazione ha il sapore di una sfida. Una sfida vinta. Quella dell’assoluta fedeltà alla partitura. Muti in una settimana di prove ha trasfigurato l’orchestra dell’Arena (che ormai suona praticamente ad occhi chiusi l’opera) trovando il colore verdiano ideale, chiedendo e ottenendo una lettura intima (e per questo verdiana) di Aida, concertata nei dettagli più nascosti. Si sente. Si vede che la partitura è stata vivisezionata a lungo in prova tanto che a volte al maestro basta un gesto e l’orchestra va da sola. Altre volte, invece, Muti si butta a capofitto nella musica, chiede passione ai legni, invita con uno sguardo gli orchestrali ad ascoltarsi, dice ai violini di seguire gli ottoni che guidano il discorso. Il preludio disegna un mondo come se emergesse dai ricordi. I personaggi sono sempre evocati dalla musica. Le danze hanno una leggerezza impalpabile, ipnotiche quelle delle sacerdotesse del primo atto, brillanti quelle dei moretti del secondo atto, venate di sinistra inquietudine (ballano i prigionieri catturati in guerra) quelle del Trionfo – le dodici trombe egizie sono sulle gradinate di pietra e catturano, inevitabilmente, gli sguardi del pubblico, seimila persone rispetto alle 13.500 dell’epoca pre Covid. Ogni parola è scolpita, ha un suo peso, un suo significato profondamente legato alla musica. Aida esce perfetta nella sua duplice natura, intima nel raccontare anime in cerca di amore, ma anche potentemente drammatica negli squarci sonori (specie nel quarto atto con gli ottoni fuori scena messi sulle gradinate, con le gran casse, il gong) che proiettano la partitura già in pieno Novecento.

Eleonora Buratto debutta nel ruolo della schiava etiope e già padroneggia in modo magnifico la scrittura verdiana, disegnando un’Aida combattiva (intenso il Ritorna vincitor), mai rinunciataria (i Cieli azzurri non sono solo un pianto disperato, ma hanno la forza di chi non si arrende al destino). Interpretazione centarta grazie al suo temperamento musicale e al suo talento in continua crescita. Azer Zada è una grande sorpresa: il tenore azero è un Radames lirico che subito segna un gol spettacolare con il si bemolle in diminuendo del «trono vicino al sol» del Celeste Aida, imponendosi poi per bellezza della voce e intelligenza musicale. Entrambi, nelle settimane che hanno preceduto le prove, hanno fatto un grande lavoro di preparazione al pianoforte con Muti. Che, però, ha avuto solo poche ore per impostare il personaggio di Amneris con Anna Maria Chiuri, arrivata all’ultimo a sostituire Anitra Rachvelishvili, al settimo mese di gravidanza (come annunciato prima dell’inizio della recita) e colta da lieve indisposizione dopo la prova generale – ma tutto il cast, negli ultimi mesi, è cambiato rispetto a quello annunciato lo scorso anno, niente Sonya Yoncheva come Aida, niente Francesco Meli come Radames, niente Luca Salsi come Amonasro. La Chiuri, musicista preparata che Muti dirige in ogni sfumatura non mollandola un attimo (e ottenendo tutto ciò che chiede), disegna un’Amneris misuratissima, che non grida mai il suo dolore, ma lo tiene dentro, sino a lacerarsi. Ambrogio Maestri (forse non proprio in serata, a sentire la fatica di certi acuti) è un Amonasro comunque corretto, Riccardo Zanellato un puntale Ramfis, Michele Pertusi un Re di lusso per l’accento verdiano che il basso parmense sfodera giganteggiando anche in una piccola parte, Benedetta Torre (Sacerdotessa) e Riccardo Rados (Messaggero) si inseriscono perfettamente nel racconto musicale.

Dopo l’ultima nota in pianissimo l’applauso fagocita l’immancabile «Viva Verdi!». Dieci muniti di acclamazioni – ma alla fine della prima parte, dopo il primo e il secondo atto, l’applauso era stato bruscamente interrotto, non senza una smorfia di alterazione da parte di Muti, dall’annuncio agli altoparlanti sulla durata dell’intervallo. A salutare la “provocazione” di Muti della fedeltà (assoluta) a Verdi.

Nelle foto @Ennevi, @Laura Ferrari e @Gianluca Munari Aida in Arena a Verona