Dopo sei mesi la Scala riabbraccia il pubblico

Il teatro milanese chiuso da 199 giorni ha riaperto le porte con un concerto del direttore musicale Riccardo Chailly Wagner, Strauss, Purcell e il bis del Va’ pensiero di Verdi

Qualcuno è arrivato sotto il portico già un’ora prima dell’orario indicato sul biglietto elettronico, aperto sullo schermo del cellulare – cellulare pronto per una foto per quando scatterà l’ora di entrare. Mascherina sul viso, non si può fare altrimenti anche se a Milano inizia a fare caldo. Alle 18.15, l’ora fissata, le porte del Teatro alla Scala si aprono. Meglio, si riaprono dopo sei mesi, dal 23 ottobre – in locandina allora c’era il recital di canto di Jonas Kaufmann. Si riaprono dopo 199 giorni in cui il pubblico non è più potuto entrare al Piermarini. Causa Covid, naturalmente, che ha tenuto gli spettatori fuori dai teatri e dai cinema come stabilito dal governo (allora era quello presieduto da Giuseppe Conte), governo che ora (lo guida un altro premier, Mario Draghi) ha dato il via libera al ritorno del pubblico in sala nelle zone gialle. «La lezione della musica la si apprende solo ascoltando insieme. In questi mesi non ci siamo mai fermati trasmettendo concerti e opere in streaming, è vero, ma oggi ritroviamo il senso del nostro lavoro perché la cultura, la musica è condivisione» dice Dominique Meyer riaprendo le porte della Scala. Non solo simbolicamente perché il sovrintendente, arrivato a Milano un anno fa sulla soglia della pandemia, lunedì 10 maggio, alle 18.15, è uscito sulla piazza ad accogliere gli spettatori: un sorriso per tutti, gomito a gomito con qualcuno, due parole con qualcun altro. «Oggi non sarà ancora normale, come prima della pandemia, ma è un primo passo per ridare al pubblico la gioia di riascoltare musica dal vivo» spiega Meyer ai giornalisti che lo salutano. «In questi mesi in cui la città era vuota entravo in teatro e si provava, si faceva musica. A differenza del primo lockdown non ci siamo fermati perché non si può lasciare per un anno un’orchestra senza musica o un corpo di ballo senza danza» spiega il sovrintendente che, poi, chiede scusa ai giornalisti.

Meyer deve salutare qualcuno, la senatrice a vita Liliana Segre che nel 1946, quando Arturo Toscanini riaprì la Scala ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, era in sala – era l’11 maggio e oggi la Scala ha voluto simbolicamente riaprire alla vigilia del settantacinquesimo anniversario di quell’avvenimento. Oggi Liliana Segre è tra le cinquecento persone, tante ne permettono le norme distanziamento, in fila per entrare al Piermarini. Per tutti, come ormai abbiamo imparato a fare da più di un anno, per la rilevazione della temperatura e l’igienizzazione delle mani. «Oggi sono cinquecento, ma stiamo lavorando con il governo e il comitato tecnico scientifico per capire se il numero nelle prossime settimane potrà aumentare» annuncia il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, entrando in teatro.

Pubblico nei palchi e in galleria. I selfie si moltiplicano, per conservare traccia di una serata che si può definire storica. C’è chi si è messo l’abito scuro, quello da teatro, da troppi mesi chiuso nell’armadio. Ci si saluta da un palco all’altro. Niente intervallo, per evitare assembramenti: la locandina dice un’ora e dieci minuti di durata del concerto. Pubblico nei palchi e in galleria perché in platea, sopra le poltrone di velluto rosso, c’è ancora la pedana per gli orchestrali: leggii distanziati per tutti e per i fiati le pareti di plexiglass a fare da barriera. Sul palco, a scacchiera, le sedie per il coro. Quando gli scaligeri entrano parte un appaluso, che non si interrompe sino a che tutti i musicisti si sono posizionati. Un “benvenuto” al quale una corista risponde agitando le braccia. Per salutare, per riabbracciare il pubblico.

«Mi è mancato. Ci è mancato» dice Riccardo Chailly, già pronto in frac e con la bacchetta stretta tra le mani nel palchetto di proscenio a sinistra, qualche minuto prima delle 19, in attesa di salire sul podio. «La Scala è l’orologio di Milano, scandisce il tempo della città: fu così nel 1946 con la riapertura a tempo di record dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale con Arturo Toscanini, è così anche oggi» per il sindaco Beppe Sala, seduto in palco reale. «Oggi riparte la cultura e speriamo che all’orizzonte non ci siamo nuovi stop perché tanti lavoratori hanno sofferto e parecchio in questi mesi. Quelli della Scala sono in qualche modo protetti dalle giuste tutele sindacali, ma ci sono molti precari rimasti senza lavoro e senza tutele. Ripartiamo anche per loro» dice ancora il sindaco, presidente del cda della Scala, mentre le luci si abbassano.

Chailly è sul podio. Un rullo sordo dei timpani. «Patria oppressa» intona il coro, facendo risuonare le parole del verdiano Macbeth. «S’alza un grido e fere il ciel. A quel grido il ciel risponde quasi voglia impietosito propagar per l’infinito, patria oppressa, il tuto dolor». Poi in brivido. «Suona a morto ognor la squilla, ma nessuno è audace tanto che pur doni un vano pianto a chi soffre ed a chi muor» dice, in musica, Giuseppe Verdi. E non puoi non pensare a chi ha combattuto e combatte da solo negli ospedali, a chi è morto e muore senza il conforto di un familiare. Così la nostra società ancora una volta si specchia nella grande musica. «Perché non siamo ancora fuori dall’emergenza e la priorità è tutelare la salute dei lavoratori e del pubblico» riflette il sovrintendente Meyer mentre la musica continua.

L’addio di Didone al mondo, When I am laid in erth di Henry Purcell, La dama di picche di Petr Il’Ic Cajkovskij con il grido disperato di Lisa «Ah, io muoio di dolore. Passata è la gioia. Il cielo fu oscurato da una nube e venne il temporale», ma anche l’Arianna a Nasso di Richard Strauss e i Maestri cantori di Richard Wagner. E Tannhäuser, sempre del musicista tedesco, con Elisabeth che canta «Te, cara sala, saluto di nuovo e lieta, o stanza amata, asil sicuro. Il suo cantare in te rinasce e smuove l’anima e desta me da un sogno oscuro» perché tornare ad ascoltare musica al Teatro alla Scala per molti è «tornare a casa, ritrovare qualcosa che per troppo è mancato, nutrimento per l’anima, specie in tempo di pandemia» dice o pensa più di un ascoltatore mentre a stento trattiene le lacrime. Poi ancora Verdi, con La Forza del destino, e l’invocazione del Pace mio Dio perché «invan la pace, qui sperò quest’alma, in preda a tanto duol», meditazione affidata alla voce del soprano Lise Davidsen – come tutti gli altri ritratti femminili della serata.

Arriva poi il Va’ pensiero. Chailly lo dirige rivolgendosi verso il coro sul palco, le spalle agli orchestrali. Intenso, commovente, come se quel «… che ne infonda al patire virtù» che i coristi di Bruno Casoni cantano dietro la mascherina, arrivasse da lontano, fosse l’anelito di un’anima provata, ma non abbattuta. Parole che qualcuno, nei palchi, ripete con un filo di voce. «… che ne infonda al patire virtù», malinconica speranza di chi vuole provare a ripartire. Perché «sarà bello, una volta usciti da questo tunnel di morte, riscoprire e capire più a fondo il valore di ciò che abbiamo e di ciò che facciamo» dice Chailly con gli occhi lucidi mentre gli applausi lo richiamano sul podio. Esce. «E avverto un’energia, un’elettricità che mi arriva dai palchi e dalle gallerie». E riattacca il Va’ pensiero, ancora più sussurrato, ancora più intimo di prima.

Nel palcchetto di proscenio arriva il sovrintendente Meyer. «Il 31 maggio presentiamo la nuova stagione. E intanto non ci fermiamo, pensiamo, programmiamo, proviamo momenti da cosa offrire al pubblico in questi mesi: musica all’aperto in estate, a giugno Nozze di Figaro di Mozart che spero di fare con l’orchestra in buca» anticipa Meyer mentre, spenti gli applausi, rientra nel suo ufficio. Perché c’è ancora da lavorare: arrivano Riccardo Muti e i Wiener philharmoniker. Ancora con gli ascoltatori in sala. «Perché il nostro lavoro ha senso solo se è fatto per il pubblico».

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala il concerto diretto da Riccardo Chailly