Schicchi nell’Inferno del boom economico

Strano a dirsi. Perché parliamo di Giacomo Puccini. Lirica, non pop. Ma alla fine del Gianni Schicchi messo in scena (staccato dagli atri due tasselli del Trittico) dal Municipale di Piacenza per ricordare i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri (e in un prologo video Mino Manni recita i versi dell’Inferno in cui il Poeta condanna Schicchi) ti viene in mente una canzone pop, Si può dare di più di Morandi, Ruggeri e Tozzi. Perché lo spettacolo diretto da Massimiliano Stefanelli e messo in scena da Renato Bonajuto sembra giocare al ribasso. Strano, perché non è abitudine del Municipale di Cristina Ferrari che negli anni ha riportato in scena La Wally di Catalani, con una Gioconda ha lanciato definitivamente Saioa Hernandez, ha fatto debuttare Luca Salsi in Falstaff sino al recente Aci, Galatea e Polifemo che ha aperto un progetto barocco con il controtenore Raffaele Pe.

Eppure questo Schicchi trasmesso in streaming e ancora visibile a questo link non spicca il volo come avrebbe potuto. Sarà per i tempi sul lento andante imposti dal podio da Stefanelli (sul leggio della Filarmonica italiana l’orchestrazione ridotta da Panizza per garantire il distanziamento in buca) o per una regia dove il già visto è la cifra dominante, gesti convenzionali, caratteri dei personaggi che sono quelli codificati di sempre. L’idea di Bonajuto di collocare le vicende del personaggio medievale negli anni del boom economico (costumi curati e azzeccati di Artemio Cabassi, scenografia visivamente sbilanciata con una mega proiezione di Firenze a sovrastare una stanza tutta rivestita di legno troppo scuro di Danilo Coppola) funziona, certo, anche perché avidità e taccagneria non hanno tempo.

A equilibrare il racconto sono le voci. Prima fra tutte quelle di Roberto De Candia, misuratissimo Schicci, vero nel suo disegnare un padre che pensa al futuro (economico soprattutto) della figlia, lontanissimo dal macchiettismo caricaturale che solitamente si associa al personaggio. Giuliana Gianfladoni disegna una Lauretta disincantata e più malinconica del solito. Matteo Desole ha squillo, tecnica e presenza scenica per un risoluto Rinuccio.