Alla Scala l’Aida che Verdi non ascoltò mai

Riccardo Chailly dirige una versione inedita dell’opera recuperando cento battute che Verdi poi riscrisse Interpreti Meli, Hernandez, Rachvelishvili ed Enkhbat

Aida come nemmeno Giuseppe Verdi l’aveva ascoltata. Perché prima di mandare in scena al Cairo nel dicembre del 1871 l’opera della celeberrima Marcia trionfale il musicista delle Roncole rimise mano alla partitura (lo scambio epistolare con il librettista Antonio Ghislanzoni colloca questa revisione nel mese di agosto), rivedendo in particolare l’inizio del terzo atto: testo (pressoché) identico, musica (quasi) totalmente diversa. Troppo avanti per l’epoca? ti chiedi ascoltando quel centinaio di battute inedite, eseguite per la prima volta in assoluto al Teatro alla Scala.

Le ha messe sul leggio Riccardo Chailly – che ama queste operazioni e ne ha fatto una sorta di bandiera della sua direzione musicale – che le ha letteralmente tirate fuori dal baule. Un baule custodito nella villa di Verdi a Sant’Agata, pieno di fogli, pagine inedite, mai ascoltate prima, prove di scrittura, abbozzi e appunti aperto due anni fa e catalogato scupolosamente per andare alle origini dei capolavori del compositore. E tra le pagine ritrovate nel baule anche quelle con le cento battute che Verdi poi scartò – non completamente perché il tema del coro finirà tre anni dopo nella Messa da Requiem, nel Te decet hymnus, qui risuona in pianissimo e nella partitura in memoria di Alessandro Manzoni in fortissimo. Le ha prese in mano Anselm Gerhard, innestando sulla partitura definitiva questo che, ad un primo ascolto, appare quasi un corpo estraneo rispetto al carattere esoterico e quasi tribale di Aida. Lo dice Verdi stesso a Ghislanzoni quando gli annuncia di voler «rifare la musica del primo coro dell’atto terzo che non è abbastanza caratteristica».

Non così tribale, quasi violenta come lo sarà poi. Perché il coro fuori scena di sacerdoti e sacerdotesse (Verdi era teatralissimo nello scrivere, spazializzando il suono) evoca sì una pagina “alla Palestrina”, ma con impasti e architetture alla Brahms, squarci di un Novecento con i suoi tormenti spirituali, forse troppo in là per il 1871. Un’introduzione con l’orchestra che sembra un organo (sempre tripartita perché il numero tre – massonicamente? – torna spesso in Aida), poi il coro sul quale si innesta, tra battute inedite e passaggi noti (il «Sì, io pregherò che Radames mi doni tutto il suo cuor» è identico alla versione che siamo abituati ad ascoltare), il dialogo tra Ramfis e Amneris. Arriva poi Aida e il suo leitmotiv si dispiega chiaro, anche se un recitativo lirico (pucciniano?) arriva prima del «Qui Radames verrà…». E, sorpresa, non c’è l’aria più bella dell’opera, non ci sono i Cieli azzurri che fermano sempre il tempo di un’azione che, sin dalle prime note, ha l’incedere di una marcia funebre verso «la fatal pietra». Aria, i Cieli azzurri, che Verdi, lo sappiamo sempre dalle lettere a Ghislanzoni, scrive proprio nell’agosto del 1871 come «un idillio per la protagonista».

Versione definitiva quella che Verdi sigla prima della prima. Definitiva nel senso più ampio del termine. Compiuta. Perché genio è chi sa rimettersi in discussione. Verdi lo fa ed emerge chiaro sentendo per la prima volta queste cento battute. E dunque l’ascolto offerto dalla Scala e da Chailly diventa un’occasione preziosa per entrare nel laboratorio creativo del musicista. Ancora di più se accade con un’Aida in forma di concerto, dove tutta l’attenzione è concentrata sulla musica (alla Scala qualcuno degli interpreti accenna a un’azione minima, ma non serve, anzi distrae…). Una lettura a due dimensioni, quasi come le pitture egizie, quella offerta da Chailly, solenne, meditativa, più spirituale che carnale, dunque impalpabile, inafferrabile. Intrisa di una sacralità che è la sacralità della vita. Perché in due ore e mezza ti scorrono davanti sentimenti e passioni umani quasi fossero ingrandite dalla lente del microscopio. Asettiche e bidimensionali, come su un vetrino. Esperimento di laboratorio per mappare l’uomo. Universali e dunque capaci di interrogarti perché ci trovi un po’ di te.

Il direttore, che già aveva affrontato la partitura per l’apertura di stagione del 2006, restituisce intatta la bellezza della musica. Che arriva immediata e avvolgente (quasi meglio che se suonata in buca) nei suoi disegni melodici, nei suoi sbalzi, nelle sue lucentezze e insieme nelle sue cupezze. Che non sono mai nero nella lettura di Chailly, ma diventano apertura ad un totalmente altro. In cui ognuno può mettere ciò che per lui è speranza. Lo fa grazie al suono disciplinato e compatto dell’orchestra della Scala, ma soprattutto grazie al colore unico, verdiano sin nei silenzi più impalpabili, del coro preparato da Bruno Casoni, collocato sui lati del palcoscenico/camera acustica, ma presente in un primo piano sonoro che ti avvolge, quasi arrivando, nei momenti più intimi, da un altrove che ti butta nella vertigine dell’infinito.

Funziona, per questa operazione culturale, la versione in forma di concerto. Funziona per proiettare in sala le voci degli interpreti, collocati davanti all’orchestra che li avvolge e non crea, come quando è collocata in buca, un muro di suono da attraversare. Il volume c’è. Si lavora di rifiniture. Come fa Francesco Meli, un Radames lirico, personaggio che il tenore genovese affronta con la sua intelligenza musicale capace di aiutarlo a risolvere i passaggi più impervi di un ruolo che, così come siamo abituati ad ascoltare, non sembrerebbe essere nelle sue corde. Invece funziona. Ci prova con la sua tecnica solida anche Saioa Hernandez, Aida che in questa versione rinuncia ai Cieli azzurri, ma la voce brunita e avvolgente del soprano spagnolo (che poco prima di arrivare alla Scala si è divisa tra l’Amelia di Un ballo in maschera a Madrid e un Verdi gala a Berlino come Lady Macbeth, due personaggi da far tremare i polsi) sembra non adattarsi in pieno alla vocalità lucente e tutta trasparenze (che richiede acuti svettanti e sicuri) della schiava etiope.

Anita Rachvelishvili è indubbiamente l’Amneris di riferimento di questi anni, per la temperatura emotiva che mette nel disegnare il suo personaggio anche solo con un accento, un sospiro, un rallentando o marcando in un modo teatralissimo (come accade nella scena del Trionfo) un «Per tutti» che Verdi scrive come a parte. Un fiume in piena di voce quello del mezzosoprano georgiano che a volte straripa, a volte si spezza tra bassi cupi e acuti taglienti come lame nella carne, ma sa sempre essere verdiano nel profondo. Come lo è Roberto Tagliavini, comprimario di lusso nel ruolo del Re. Come lo è Jongmin Park, Ramfis dalla voce avvolgente e sempre timbrata. Come lo è Amartuvshin Enkhbat, baritono mongolo che non parla italiano, ma scolpisce con nobiltà di accento e suono di notevole bellezza, la parola verdiana ripulendo (verdianamente) Amonasro dalle marcature veriste alle quali molti interpreti ricorrono per marcare una durezza che Verdi mette già nella musica. Basta ascoltarla. E c’è già tutto. Anche in quella musica (le cento battute ritrovate) che Verdi non aveva mai sentito.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Aida in forma di concerto