Meli, la mia voce per un Requiem di liberazione

Il tenore genovese affronta la pagina di Verdi sulla morte al Maggio con Mehta e in Duomo a Milano con Chailly esecuzioni in ricordo delle vittime del coronavirus

Il momento della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi che Francesco Meli, ogni volta che lo canta, vive con più partecipazione «è sicuramente l’Hostias, il cuore dell’Offertorio, il momento più impegnativo e più complesso tecnicamente, certo, ma sicuramente quello che mi emoziona ogni volta che lo canto» racconta il tenore genovese. «Hostias et preces tibi, Domine, laudis offerimus» sussurra il tenore nel cuore del Requiem per chiedere al Signore che le preghiere e le offerte che gli vengono innalzate possano far passare «dalla morte alla vita le anime dei fedeli defunti». Che è poi, questa richiesta, il significato più profondo della proposta della Messa da Requiem che prima il Maggio musicale fiorentino e poi il Teatro alla Scala hanno messo in programma per rendere omaggio a tutte le vittime della pandemia di coronavirus. Francesco Meli canterà l’Ingemisco e l’Hostias sia a Firenze che a Milano, città che hanno scelto la pagina verdiana, la grande riflessione sul senso del dolore e sul mistero della morte che il musicista ha scritto nel 1874 per ricordare l’amico Alessandro Manzoni, per far ripartire la musica dal vivo dopo la “prova generale” dell’estate. Una ripartenza nel segno del ricordo e del fare memoria di chi non c’è più. A Firenze, il 30 e il 31 agosto, nella Cavea del Teatro del Maggio con Zubin Mehta sul podio, a Milano il 4 settembre in Duomo con la bacchetta di Riccardo Chailly che porterà poi la pagina il 5 in Santa Maria Maggiore a Bergamo e il 7 in Duomo a Brescia, città messe a dura prova dal Covid. Con Meli in entrambe le città ci saranno il soprano Krassimira Stoyanova e il mezzosoprano Elina Garanca, il basso al Maggio sarà Michele Pertusi, mentre con la Scala ci saranno René Pape e ancora Pertusi. «Faremo memoria delle vittime della pandemia. A Milano, invece, – racconta Meli, classe 1980, sposato con il soprano Serena Gamberoni – il Requiem segnerà la ripresa della musica per il Teatro alla Scala perché dopo i concerti da camera di luglio sarà la prima volta che orchestra e coro torneranno ad esibirsi dopo il lockdown».

Molti i Requiem che ha cantato in tutto il mondo, ma questi di Firenze e Milano hanno, come ha ricordato, un significato tutto particolare. Come li affronta, Francesco Meli?

«Con profonda emozione. A Firenze in platea ci saranno medici e infermieri che sono stati in prima linea nelle settimane di emergenza. E acanto a loro anche i parenti di alcune vittime. A Milano porteremo il Requiem nella cornice suggestiva ed evocativa del Duomo, restituendo ancora di più a questa pagina la sua profondità spirituale. In queste occasioni sono sicuro che la Messa da Requiem diventerà ancora di più un’occasione di riflessione sul percorso tutto interiore scritto nel testo: non c’è solo il pentimento, ma ci sono il senso del dolore, la domanda sulla morte e le parole della liturgia, unite alla musica di Verdi, suggeriscono all’uomo, a ciascuno di noi, come affrontare la vita (e la morte) al cospetto di Dio. La chiave nel do maggiore finale».

Quell’accordo che per qualcuno è una speranza, per altri un grande punto interrogativo se davvero ci sarà la salvezza. Per lei cos’è?

«Il do maggiore finale resta lì sospeso, non si compie, per questo c’è chi lo vede come una certezza della vita dopo la morte, chi come una domanda sul dopo e chi lo legge come la paura di fare quella domanda. Ogni volta che in orchestra sento questo accordo fermo e il do ribattuto dal coro penso che lì Verdi abbia voluto mettere davvero un’idea di liberazione. La partitura del Requiem è parecchio complicata, molto più di quelle delle opere del musicista, con un’orchestrazione molto elaborata e contrappuntistica: si arriva a quel do maggiore finale tirando un sospiro dopo tanta fatica e io ci leggo una metafora di una liberazione dalla morte».

La musica cosa può dire in momenti complessi come quelli che stiamo vivendo?

«Penso che non ci sia un unico modo con il quale vivere la musica. In un momento di dolore può essere un istante in cui andare in un altro posto e non pensare alla sofferenza, un’evasione dalla realtà. Ma, al contrario, può essere anche una forza scatenante del sentimento per farcelo vivere in maniera più forte e amplificata, un modo per radicarsi nella realtà provando a capire qualcosa del nostro presente e di quello che stiamo vivendo».

Per lei cosa è stata la musica nei mesi del lockdown?

«In questo periodo ho messo un po’ da parte la musica, almeno per quel che riguarda l’esporla agli altri: tanti colleghi hanno sfruttato le potenzialità dei social, hanno fatto lezioni, dato consigli, cantato in diretta Facebook o Instagram. Io e mia moglie Serena inizialmente eravamo un po’ restii a fare video con le nostre esibizioni, poi ci siamo lasciati convincere non tanto per sentirci dire “bravi”, ma perché abbiamo capito che la musica poteva fare del bene a chi l’ascoltava. Comunque siamo stati poco presenti sui social. E anche nel privato abbiamo studiato e cantato poco, anche perché siamo stati abbastanza impegnati nel seguire i nostri figli nella didattica a distanza, un percorso complesso e impegnativo».

E come è stato tornare a fare musica?

«Strano ed emozionante allo stesso tempo. Al primo concerto non mi è sembrato di essere, ma l’a sensazione è che fosse il 24 febbraio: tutto si era fermato al 23 febbraio con la cancellazione del Trovatore alla Scala e, dunque, quando sono tornato a cantare in pubblico per me è ripartito tutto da dove si era interrotto. Tanto più che uno dei concerti della ripartenza è stato proprio alla Scala: è stato come tornare dopo anni in una casa rimasta nel frattempo disabitata, l’ho trovata come l’avevo lasciata il 23 febbraio, con le cose nello stesso posto, avevo ancora alcuni pacchetti lasciati lì».

Dopo il Requim tornerà alla Scala in ottobre con Aida in forma di concerto diretta da Riccardo Chailly.

«I miei rapporti con il teatro milanese sono radicati nel tempo e vanno al di là di chi la dirige. Con il maestro Chailly la collaborazione è consolidata e ora è arrivato Dominique Meyer con il quale ho un eccellente rapporto da sempre perché una delle prime cose che ho fatto è stato cantare per lui agli Champs Élisée a Parigi quando dirigeva il teatro».

Al Maggio musicale fiorentino, invece, non ha cantato così di frequente.

«Vero, ma ora con l’arrivo alla sovrintendenza di Alexander Pereira, al quale mi lega una lunga amicizia, la collaborazione si è intensificata e lo sarà anche in futuro. Quando i teatri non avevano ancora riaperto abbiamo realizzato un concerto in streaming durante la preparazione del quale abbiamo anche inciso un disco di arie verdiane. Questa estate ho cantato nel verdiano Ballo in maschera e ora il Requiem».