Vivaldi a mezzanotte riapre i teatri dopo il Covid

I Pomeriggi musicali di Milano primi a fare musica dal vivo dopo il lungo stop a causa della pandemia di Coronavirus Montanari ha diretto le Quattro stagioni per 170 spettatori

Milano, anche se è una domenica sera di (quasi) estate e mancano una manciata di minuti alla mezzanotte, è metafisicamente vuota. Non come i giorni del lockdown, certo, ma una certa impressione la fa ancora. Deserto il centro, solo un bar con i tavolini all’aperto serve ancora qualcosa da bere su via Dante. In giro, sulla via che da Cairoli porta in Cordusio, qualcuno dei proprietari degli altri locali che, impilate le sedie sotto i gazebo, va verso la fermata del tram evitando due ragazze (impacciate) alle prese con il monopattino elettrico. Polizia ed esercito a presidiare piazza Duomo, ma sono ancora in pochi a farsi una foto con la Madonnina sullo sfondo.

Presidio anche davanti al Teatro Dal Verme che, di colpo, si illumina con i colori della bandiera italiana. Facciata bianco, rosso e verde mentre dentro le luci sono tutte accese, nonostante l’orologio segni le 23.45: si lavora perché un minuto dopo la mezzanotte si riaprono le porte e le maschere – guanti e mascherina infilati insieme alla divisa blu – preparano i rilevatori di temperatura e verificano che i dispenser di gel igienizzante funzionino.

I Pomeriggi musicali battono tutti sul tempo e per primi in Italia tornano a fare musica dal vivo. Lo fanno nella loro casa milanese, il Dal Verme appunto, appena suonata la mezzanotte del 15 giugno, giorno indicato dal governo per la riapertura dei teatri dopo quasi quattro mesi di serrata. Milano, dove gli ultimi spettacoli dal vivo sono stati domenica 23 febbraio, resta deserta quando mancano pochi minuti a mezzanotte – tanto che sulla panchina sotto gli alberi di Foro Bonaparte un senza fissa dimora riesce a dormire. Ma presto si deve spostare perché in poco tempo via San Giovanni sul Muro, in fondo proprio dove c’è la chiesa e dove si intravede la Torre del Filarete del Castello, si anima di voci: centocinquanta persone, ordinate, ognuna sull’adesivo che a terra indica dove attendere il proprio turno per entrare in teatro, mascherina sul viso (tante chirurgiche, ma qualcuno/a non rinuncia ad averla in coordinato con l’abito da sera che ha ritirato fuori per l’occasione), in mano il foglio con la prenotazione stampata perché (anche se l’ingresso è gratuito) senza non si entra, la biglietteria resta ancora chiusa.

Arrivano il prefetto Renato Saccone e il questore Sergio Bracco. Niente lampeggianti a illuminare la notte, però, nemmeno per il governatore della Lombardia Attilio Fontana che saluta il vicesindaco di Milano Anna Scavuzzo sfiorandole il gomito. Gomito a gomito anche tra gli assessori alla Cultura della Regione del Comune, Stefano Bruno Galli e Filippo Del Corno. Mezzanotte e un minuto. In un clima tra la Messa della notte di Natale e il conto alla rovescia di Capodanno, le porte del teatro si aprono. Si riaprono alla musica e, anche qui, si impongono le nuove regole con le quali abbiamo imparato a convivere causa Covid. Le maschere all’ingresso rilevano la temperatura. Si igienizzano le mani prima di prendere la locandina con il programma che annuncia La natura e il suo valore perché sul leggio ci sono le Quattro stagioni di Antonio Vivaldi con l’orchestra d’archi dei Pomeriggi musicali e Stefano Montanari direttore e solista al violino, ravennate di origine, ma da anni residente a Nembro, in provincia di Bergamo, uno dei focolai del coronavirus dove queste Stagioni arriveranno il 19 giugno per poi andare in un altro epicentro dell’epidemia, il 20 giugno, a Casalpusterlengo.

In sala si viene accompagnati al proprio posto. Distanziati, naturalmente: un metro di spazio di fianco e uno davanti, che vuol dire una poltrona occupata e due vuote – un cartello con una faccina triste e un posto barrato da una ics rossa indica il “divieto di seduta” – e spettatori a file alternate e sfasati. Così si rispetta il limite dei duecento posti al chiuso imposti nel decreto governativo. Il Dal Verme ha 1436 poltrone e indubbiamente fa effetto vederne tante vuote. «Così almeno non ci sarà nessuno che si lamenta che non vede il palcoscenico» dice qualcuno mentre si fa l’inevitabile selfie da postare sui social per dire che #sitornaateatro. Non c’è il brusio che precede i concerti quando la sala è piena. Sarà che è mezzanotte e 25. Sarà che la mascherina, obbligatoria da indossare, attutisce il suono delle prole. O che si ha quasi timore a parlare per non rompere un silenzio che avvolge di mistero, quasi di sacro questa ripartenza.

Le luci si abbassano. I saluti istituzionali di rito. Con il governatore Fontana che sottolinea come «questo concerto dimostra la voglia di essere più forti del virus, l’inizio della normalità che ci dobbiamo riconquistare». Con il vicesindaco Scavuzzo a dire un «grazie per il lavoro fatto, ma anche per quello che ci attende per ripartire». L’orgoglio del presidente dei Pomeriggi, Giovanni Bellenti, nel ricordare che «anche dopo la Seconda guerra mondiale, pur se appena fondati, i Pomeriggi sono stati i primi a riportare la musica a Milano». La caparbietà del direttore artistico, Maurizio Salerno, che ha ribadito «l’importanza che la ripresa delle attività del vivo avvenga subito e con estrema positività. Oggi con questo gesto simbolico iniziamo un cammino» ha detto prima di lasciare la parola ad Emanuele Catena e Roberto Rech, medici rianimatori del Sacco, tra i primi ad arrivare a Codogno il 20 febbraio, che hanno evocato immagini, la solitudine di chi è morto solo, ma anche la tenacia di chi non si è mai arreso, lottando per salvare vite umane «in uno scenario apocalittico che non ci era mai capitato di affrontare».

Una notte come quella evocata dall’arciprete del Duomo, monsignor Gianantonio Borgonovo, che dopo aver chiesto un tempo di silenzio meditativo, ha guardato al buio di questi mesi che ha fatto comprendere meglio il giorno citando Novalis. «Come povera e infantile mi sembra ora la luce, come grato e benedetto l’addio del giorno. Solo perché la notte allontana da te i tuoi fedeli, tu seminasti per gli spazi immensi le sfere luminose ad annunziare l’onnipotenza tua, il tuo ritorno, nel tempo della tua lontananza».

Entrano i musicisti. Solo gli archi dei pomeriggi e il clavicembalista Riccardo Doni. Ultimo arriva Stefano Montanari, pantaloni di pelle nera, stivaletti scamosciati, neri, orecchini. Ognuno davanti al proprio leggio, il distanziamento vale anche sul palco quindi niente più partiture condivise. Hanno tutti la mascherina. Che si tolgono con un gesto che ha la forza simbolica di una ritrovata libertà, quella di tornare a fare musica dal vivo. Che non è come farla in casa, sui balconi o via streaming perché manca il calore del pubblico. Eccolo nell’applauso dei centosettanta spettatori che si sente, convinto, ma è quasi in sordina nell’ampia sala. Che vista così, con gli spettatori a scacchiera, fa uno strano effetto. Poi però parte la musica, il celeberrimo tema della Primavera e tutto cambia. Il distanziamento, le mascherine, l’odore del disinfettante per le mani non ci sono più: c’è la musica, quella che, se ti cattura, ti dà l’illusione che sia suonata solo per te (te la dava anche prima del lockdown quando si ascoltava fianco a fianco a chi oggi ci deve stare a un metro).

Le quattro stagioni nella versione rock di Montanari suonano attualissime, parlano a un mondo che ha vissuto la malinconia dell’Autunno, ha attraversato lo sconforto dell’Inverno, ma ha ritrovato una Primavera che parla già di Estate, quella dove la vita esplode, ma sa anche meditare sul suo significato. Gli archi dei Pomeriggi, che suonano in piedi e riproducono con i loro movimenti il cardiogramma emotivo disegnato dalla musica, assecondano meravigliosamente la lettura di Montanari, cupa e straniata nelle tinte autunnali e invernali, spensierata nei palpiti primaverili, calda nell’abbondare estivo della vita. Certo, come vuole Vivaldi, la sequenza non è questa, perché le Stagioni partono dalla Primavera e arrivano all’Inverno, a dire che è un attimo il trascolorare della gioia nel dolore. Ma anche che si può sempre ripartire. Che si deve farlo.

L’orologio segna l’1.45. Spenta l’ultima nota l’applauso stenta a partire. C’è qualche occhio umido da asciugare, senza farsi notare troppo prima che le luci si riaccendano. Quelle della sala, certo, ma anche quelle che la musica, tornata a farsi sentire, ha riacceso nella notte che sta lasciando spazio al giorno.

Nelle foto @Lorenza Daverio il concerto dei Pomeriggi musicali al Teatro Dal Verme di Milano