Scala, un Trovatore in tempi di sede vacante

Nei giorni di vuoto tra le sovrintendenze Pereira e Meyer non convince l’opera di Verdi diretta da Nicola Luisotti nell’allestimento di Hermanis ambientato in un museo

Diciamolo con un paradosso. La “colpa” del naufragio del (brutto) Trovatore in scena al Teatro alla Scala è del sindaco di Milano Beppe Sala. Certo, non perché l’inquilino di palazzo Marino abbia cantato o sia salito sul podio o abbia curato la regia dell’opera verdiana. La “colpa” del primo cittadino del capoluogo lombardo, nella sua veste di presidente del consiglio di amministrazione della fondazione lirica, è quella di aver lasciato la sede vacante alla Scala.

Perché questo Trovatore, come in parte anche il Roméo et Juliette di Gounod, sconta la mancanza di una guida stabile dopo l’addio di Alexander Pereira – partito a metà dicembre per il Teatro del Maggio di Firenze, in anticipo sulla scadenza del suo contratto – e in attesa dell’insediamento ufficiale, a  inizio marzo, di Dominique Meyer. Sala, che con il cda del teatro ha deciso di non rinnovare dopo il primo mandato quinquennale l’incarico a Pereira, ha accettato che il manager austriaco, scritturato nel frattempo da Firenze, lasciasse Milano in anticipo rispetto alla scadenza di fine febbraio – Meyer invece, che comunque è già presente alla Scala qualche giorno la settimana, sta attendendo (e lavorando nella capitale austriaca) la fine del contratto che lo lega alla Staatsoper di Vienna prima di insediarsi definitivamente a Milano. Errore strategico, dunque, quello del sindaco Sala, perché, si sa, quando ai vertici di un’istituzione manca una guida la tentazione di tutti è quella di voler comandare, ma senza prendersi le proprie responsabilità. Grandi o piccole che siano.

Piccole. Come capitato alla quarta replica del Trovatore quando, rientrato in buca dopo l’intervallo, il direttore d’orchestra Nicola Luisotti si è trovato sul leggio ancora la partitura dei primi due atti e ha dovuto annunciare al pubblico, tra il divertito e l’imbarazzato, che era in attesa che gli portassero quella giusta. Problema risolto. Ma, tempo dieci minuti, Francesco Meli, dopo aver portato a casa la puntatura, seppur non luminosissima, della Pira (l’impressione, però, è che fosse al si e non al do, perché la cabaletta sembrava abbassata) incappa in una doppia stonatura che prende (a vedere la smorfia che ha fatto) assai male, risollevandosi poi con la nuova puntatura sull’«All’armi!».

Colpa di Sala? Si è dimenticato lui la partitura? Ha steccato lui? Certo che no. Forse il direttore d’orchestra, in fase di concertazione, avrebbe dovuto insistere per non fare la puntatura e risolverla attenendosi a quanto scritto da Verdi in partitura, nessun acuto al do (o al si che sia) né sull’«O teco almen…» né sull’«All’armi!». Cosa c’entra il primo cittadino, allora? Si ritorna al discorso della sede vacante. La presenza di un sovrintendente/direttore artistico, quotidianamente in teatro, presente e vigilante avrebbe sicuramente potuto evitare che questo Trovatore naufragasse. Come? Correggendo il tiro in corso di prove, chiedendo conto di certe scelte musicali e arrivando, perché no, se necessario, alla decisione di sostituire quegli elementi del cast che proprio non funzionano.

Alla prima il regista Alvis Hermanis, che ha ambientato le vicende del libretto di Salvatore Cammarano ai giorni nostri, in un museo con le guide e i vigilanti presi dalla sindrome di Stendhal, è stato coperto di fischi. In effetti la sua regia – l’artista lettone ha rimodulato per il palco della Scala l’allestimento andato in scena nel 2014 al Festival di Salisburgo (allora guidato da Pereira) – seppure parta comunque da un’idea (una notte al museo, con i quadri del rinascimento italiano e fiammingo che prendono vita), sembra non risolta. Ferrando è una guida turistica che fa diventare il racconto delle vicende del Conte di Luna una spiegazione dei quadri del museo ai turisti in sandali e bermuda; stessa cosa per Azucena che dopo il suo Stride la vampa si ritrova svenuta e nei panni della zingara. Svenimenti, da sindrome di Stendhal, appunto. Turisti che ci prendono gusto a vestire i panni degli armigeri del Conte; Leonora e Ines vigilanti dei quadri: bellissimi e tutti preziosi, riuniti in una stratosferica collezione immaginaria da fare invidia a qualsiasi museo, tutti sulle tinte del rosso come rossi sono i costumi (di Eva Desseker) e le pareti espositive (scene dello stesso Hermanis e di Uta Gruber-Ballehr) in continuo (e fastidiosamente ingiustificato) movimento. Idee. Hermanis apre un discorso, ma non lo porta con coerenza sino in fondo tanto che una volta finito il gioco delle guide turistiche che si tramutano nei personaggi del dramma l’azione ricalca qualsiasi regia vecchio stile di un qualsiasi Trovatore – con l’aggravante di movimenti di massa non sempre ben concertati, pose drammaticamente comiche perché non commisurate alla fisicità degli interpreti.

Fischiato Hermanis. Alla prima, seppur in misura minore, contestato anche (pure in corso d’opera), Luisotti. Il direttore d’orchestra è sempre stato una garanzia per professionalità e intelligenza musicale: negli anni alla Scala certo suo primo Verdi ha lasciato il segno, da Nabucco ad Attila. Ma questa volta la sua concertazione ha lasciato spiazzati: alcuni tempi slentati e altri improvvisamente e vorticosamente accelerati con i cantanti in rincorsa (e il coro perso diverse volte cosa che, con la compagine di Bruno Casoni, suona davvero strana), portamenti, suono sempre forte o fortissimo (tranne nella seconda scena del quarto atto, più sfumata e rifinita nei colori) con grande dispiego di percussioni. Cantanti lasciati un po’ in balia di se stessi. Francesco Meli ha la voce bella e squillante di sempre ma forse Manrico non è proprio un ruolo che gli calza a pennello: la Scala lo ama e gli perdona le scivolate della Pira e le parole sbagliate alla quarta recita nella prima strofa della canzone di sortita fuori scena. Violeta Urmana è ancora un’Azucena solida ed emozionante, svettante in acuto, cosciente che il personaggio che muove le fila della storia è proprio la zingara. Gli efficaci e puntuali Gianluca Buratto e Riccardo Fassi si alternano nei panni di Ferrando. Liudmyla Monastyrska ha voce corposa e piena, strumento potente che il soprano piega con aggiustamenti ad hoc di fiati e presa di acuti alle agilità belcantistiche che Verdi vuole per Leonora, personaggio che, nell’interpretazione della cantante ucraina, esce comunque troppo bidimensionale e legato a un gusto un po’ sorpassato.

Un sovrintendente presente in platea alle prove avrebbe fatto correzioni in corsa (anche drastiche, ma forse necessarie) alla compagnia di canto che, dispiace notarlo, ha il suo punto debole in Massimo Cavalletti: il baritono, apprezzato in altri ruoli verdiani, qui sembra non centrare il personaggio, vocalmente (dove è spesso in difficoltà soprattutto nel passaggio e nell’acuto che risulta spesso forzato – momento riuscito, invece, quello del Balen del suo sorriso) e scenicamente. Non aiutato, come i suoi colleghi dalla regia di questo Trovatore al museo in tempi di sede vacante alla Scala.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Il trovatore