Colasanti, il mio Requiem illuminato di speranza

La compositrice romana porta alla Verdi la partitura dedicata alle vittime del sisma del Centro Italia del 2016 «Nella mia scrittura il presente dialoga con il passato»

«Vittima è chi muore, certo. Ma vittima è anche chi resta e deve fare i conti con il dolore, con il ricordo di una tragedia che non si cancella dalla mente». A loro, che sono quelli che «stringeranno nei pugni una cometa», Silvia Colasanti dedica il suo Requiem, una pagina scritta nel 2017 per ricordare le vittime del terremoto che ha sconvolto il Centro Italia nel 2016. La prima assoluta fu a Spoleto «in piazza Duomo, in quello che è stato un rito collettivo, un uscire dai teatri per dire ancora una volta il valore civile dell’arte» racconta la compositrice romana, classe 1975. Sino a domenica 16 febbraio il Requiem. Stringeranno nei pugni una cometa è in cartellone in Auditorium a Milano, sul leggio dell’Orchestra sinfonica Giuseppe Verdi, accanto a un altro Requiem, quello di Wolfgang Amadeus Mozart. Sul podio Maxime Pascal, la voce recitante è quella di Mariangela Gualtieri, autrice dei testi, il canto è affidato al Coro sinfonico Verdi e al mezzosoprano Monica Bacelli mentre Davide Vendramin sarà al bandoneon. «Ho voluto come sottotitolo un verso del poeta Dylan Thomas – spiega la musicista formatasi in Conservatorio a Roma e perfezionatasi poi alla Chigiana e all’Accademia di Santa Cecilia – per far entrare la luce in un racconto di morte, per dire che c’è una speranza oltre la fine delle cose e invitare a vivere intensamente la vita».

Un testo sacro, quello liturgico della Messa da Requiem, al quale si uniscono i versi poetici di Mariangela Gualtieri: quali, Silvia Colasanti, le forme musicali che ha scelto per far diventare musica queste parole?

«Il mio lavoro parte sempre dal testo che devo musicare: se ci sono parole non si può prescindere da esse per trovare la forma, occorre mettersi in ascolto del testo che ci viene consegnato, in questo caso quello liturgico antichissimo del Requeim: ho scelto di musicare tre momenti della liturgia funebre, il Requeim Aeternam iniziale, la lunga Sequenza che si apre con il terrifico Dies Irae e il Lux Aeterna finale, che illumina tutta la partitura di una luce di speranza. Tra questi testi sono inseriti i versi di Mariangela Gualtieri che dialogano con la liturgia con la quale troveranno un punto di convergenza nella compassione finale. La partitura diventa così un’alternanza tra l’ascolto del testo latino affidato a un coro che è il Coro di chi non dubita – voce della Chiesa che racconta, attraverso il testo liturgico, la morte e il timore dell’uomo di fronte a un dio punitore nella grande scena del Dies Irae – e il testo italiano di Mariangela Gualtieri che risuona attraverso la voce della poetessa stessa che veste i panni della Dubitante. Se il teso poetico è affidato alla voce recitante accompagnata di volta in volta da uno o due strumenti, il testo latino è restituito da coro e orchestra ai quali nel Quid sum miser si unisce il mezzosoprano, Cuore ridotto in cenere, e nel finale un bandoneon, Il respiro della terra. Personaggi perché ho voluto dare una forma oratoriale, quasi teatrale al mio Requiem».

Parole antiche e contemporanee per raccontare il sacro. E i suoni?

«Il sacro ci appartiene da sempre e nel tempo non muta il senso del trascendente dell’uomo. Non muta il suo linguaggio. In mille anni di storia della musica il testo della Messa da Requiem è stato musicato più di cinquemila volte e dunque il confronto con il passato è imprescindibile: per questo nella mia partitura ho voluto rifarmi alle origini della polifonia, qualcosa per noi lontano nel tempo, dal sapore arcaico e ho voluto utilizzare questi vocaboli musicali guardandoli con la lente del presente, perché il fatto che il sacro non muti non vuol dire che non lo si debba guardare con gli occhi di oggi».

Nel Requiem per le vittime del terremoto del 2016 il sacro dialoga con un’urgenza civile, quella della memoria che diventa monito per il futuro perché se un sisma è una catastrofe naturale, la prevenzione è un compito imprescindibile per chi amministra. Come la sua pagina tiene insieme tutte queste componenti?

«L’arte e la musica sono rito, qualcosa che oggi la nostra società troppo spesso sottovaluta: già un concerto è un rito che permette di uscire da una dimensione privata, in questo caso la dimensione del dolore, e di condividere empaticamente un’esperienza con gli altri, con una comunità. In questo senso l’arte vissuta come rito permette un rapporto di maggiore condivisione del dolore ed elaborazione. Anche la spiritualità è qualcosa di interiore e privato che ha la necessità di essere vissuto insieme agli altri. Ecco il punto di incontro che si rinnova ogni volta che una partitura risuona: accade in teatro, è accaduto all’ennesima potenza in piazza duomo a Spoleto nel 2017 davanti a 2500 persone, un momento in cui si è fatta ancora più concreta l’idea dell’arte come un dialogo continuo tra chi scrive, chi suona e chi ascolta. Questo aspetto, che troppo spesso viene dimenticato, è ciò he mi guida nella scrittura».

Nel suo lavoro ci sono temi che tornano: il sacro con questo Requiem e Le imperdonabili ispirato a Etty Hillesum, il mito con Orfeo e Minotauro, ma anche la grande letteratura da Faust a Le metamorfosi ispirato a Kafka. Opere, oratori, concerti, musica da camera. In quale forma si sente più a suo agio?

«Amo il teatro e amo l’opera lirica, un genere che nel tempo è diventato tante cose diverse. Mi accorgo di amare il teatro perché non solo lo faccio scrivendo un’opera lirica, ma metto la drammaturgia dappertutto, nei suoni: anche quando scrivo lavori di musica assoluta, sinfonica o con solisti il mio discorso musicale muove sempre per motivazioni drammaturgiche che vengono raccontate in alcuni casi dai suoni e in altri esplicitati dalla parola. Mi piace il confronto che c’è dietro il teatro, la relazione tra le persone, tutto quello che si crea intorno a un’opera che è un lavoro di tanti».

Il Requeim è una commissione del Festival dei Due Mondi di Spoleto. Quale il suo rapporto con la committenza?

«Per me la commissione è sempre uno stimolo, mai un compromesso. Sono lontana dal mettere nell’arte la cronaca perché vedo il rischio di una mancanza di rispetto nei confronti di chi soffre e il pericolo di essere intrappolata in un narcisismo dell’artista, preferisco rifarmi a qualcosa di più eterno attraverso il quale si possa poi leggere il quotidiano. Dunque non avrei mai pensato di lavorare su un fatto di cronaca come il sisma del 2016. E quando da Spoleto Giorgio Ferrara mi chiese di fare qualcosa per le vittime del terremoto ho cercato subito di interrogarmi su come con il mio stile e il mio linguaggio avessi potuto rispondere a questa richiesta: non ho voluto, allora, raccontare l’episodio in sé, ma rifarmi a una forma della tradizione come il Requiem e rileggerla legandola a una morte così particolare come quella provocata dal terremoto. La committenza è uno stimolo e l’artista non deve viverla come compromesso, ma cercando di mettere ciò che lui è a servizio di ciò che viene richiesto. Lavoro creativo è anche capire, prima di scrivere, cosa ci viene richiesto e comprendere come essere noi stessi in quella richiesta».

Da dove nasce la sua passione per la musica e per la scrittura?

«Non vengo da una famiglia di musicisti, ma ho iniziato sin da piccola a studiare pianoforte, a sei anni. La passione per la musica, che era sicuramente qualcosa che avevo dentro, è cresciuta dentro di me anche perché sulla mia strada ho avuto la fortuna di incontrare maestri che hanno saputo appassionarmi. La composizione è arrivata nel periodo dell’adolescenza quando ho capito che ero più a mio agio nel progettare la musica piuttosto che a farla da interprete».

I suoi lavori vengono ripresi spesso e non vanno, come capita molte volte con la musica contemporanea, nel dimenticatoio dopo la prima. Questo Requiem, dopo Spoleto è già stato eseguito a Bolzano, ora arriva a Milano e in aprile sarà a Roma alla Sapienza.

«Questo è importante, perché dietro ogni partitura c’è tanto lavoro. Così come è fondamentale che il compositore si problematizzi sull’aspetto del dialogo con il pubblico per far arrivare nel modo più chiaro la nostra complessità. Una complessità che esiste perché come uomini siamo complessi, perché siano nel 2020 e abbiamo tanta storia della musica alle spalle e quello che facciamo risente inevitabilmente di un passato ricchissimo che ci rende molto sofisticati. Un aspetto che deve essere reso in modo estremamente chiaro perché l’arte deve arrivare con il suo pensiero per una strada che passa dal cuore, per una via emotiva».

Nel secondo Novecento certe avanguardie, però, hanno rischiato di allontanare il pubblico dalla musica, arrivando quasi a teorizzare l’incomunicabilità.

«Questo è un periodo per fortuna superato, che comunque ha fatto i suoi danni. Comprendo che a un certo punto c’è stata la necessità di provare a dire qualcosa di nuovo di fronte a un grande accumulo di passato. Comprensibile, ma se non c’è un’evoluzione la novità fine a se stessa rischia di avere vita breve. Per quel che mi riguarda non ho una visione evoluzionistica dell’arte che procede e rispecchia il presente, ma questo non vuol dire che debba cancellare ciò che c’è stato. Noi abbiamo il peso di avere un passato così ricco, ma anche la fortuna di poter guardare con un respiro molto ampio quel passato. È la nostra forza, ciò che ci rappresenta di più e dobbiamo sfruttarlo. In un pezzo possiamo accostare vocaboli lontanissimi tra loro e questo ce lo permette il nostro tempo ricco di storia. Dobbiamo essere rappresentativi del nostro tempo perché siamo complessi, ma la complessità va raccontata in modo chiaro».

È difficile per una donna essere compositore?

«È difficile per tutti esserlo. In generale c’è meno voglia di capire per emozionarsi quindi ci sono prodotti molto più fruibili di quelli artistici che un compositore propone oggi e le persone si adagiano su cose già note di fronte alle quali non devono pensare molto. Poi c’è chi ha voglia di emozionarsi in modo più profondo, intendiamoci, ma diciamo che il nostro paese coltiva questo troppo poco, dal punto di vista didattico non lavora sulla formazione del pubblico (che poi vuol dire formazione della persona), non lavora sulla crescita culturale. E non lavora sulla produzione, basta guardare i cartelloni dei nostri teatri lirici: quante Traviata e quante nuove opere? Accanto a un repertorio che già conosciamo e che vale la pena valorizzare e fare conoscere, lavoro lodevolissimo, bisogna avere l’intelligenza e il coraggio di capire che esiste un presente: se nel presente non si continuano a produrre nuove opere ci troveremo senza un patrimonio come quello che oggi abbiamo perché ce lo hanno lasciato i compositori di ogni epoca, ma anche perché ci sono stati impresari che hanno creduto nei loro contemporanei (che si chiamavano Rossini, Verdi, Puccini…), nel valore dell’arte e che hanno permesso la nascita di queste opere. Dove sono queste figure? Oggi ci sono, ma per me sono ancora troppo poche Chi ha paura della musica contemporanea? Ahimè, qualcuno c’è ancora».

Nella foto @Barbara Rigon la musicista Silvia Colasanti