Con Luca Salsi Falstaff diventa uno di noi

Grande debutto del baritono nel capolavoro verdiano proposto a Piacenza con la bacchetta di Jordi Bernàcer Regia tradizionale di Lidi, la modernità è tutta nel canto

Oggi, forse, sir John manderebbe una domanda in tv per partecipare alla versione senior di Uomini e donne. Per corteggiare più signore contemporaneamente e anche per cercare di mettere da parte qualche soldo (oggi non sarebbero quelli che le comari tengono nello scrigno, ma qualche ospitata in tv o qualche serata – pagata con il gettone di presenza – in qualche discoteca/balera). Un abito alla moda, forse un po’ ridicolo. Una poesia canticchiata su una melodia nota. L’invito a ballare. E il corteggiamento è fatto. Tv? O Shakespeare?

Raccontando così l’attualità di Falstaff si può passare per dissacratori, tanto più che in ballo c’è il capolavoro verdiano. Anche troppo dissacranti, forse. Ma in realtà se può far(ci) riflettere su quanto possiamo essere goffi e ridicoli, forse il paragone non è così fuori luogo. Il Falstaff è quello di Giuseppe Verdi, scritto su libretto di Arrigo Boito ispirato ai testi di William Shakespeare – la commedia Le allegre comari di Windsor e il dramma Enrico IV – dove compare il personaggio buffo. Meglio, tragicomico. Perché – ed ecco il motivo per cui può non essere poi così tanto dissacrante l’accostamento con la tv trash di oggi – (ci) mette di fronte a miseria e grandezza di noi uomini. Uomini della strada, uomini (e donne) comuni. Perché Verdi non sceglie un eroe per la sua ultima opera, testamento artistico, ma anche spirituale nel dire che tutto, anche per chi si è preso sul serio per una vita, finisce con un sorriso – dolce, amaro, beffardo, ma pur sempre un sorriso. Verdi sceglie sir John, che passa le sue giornate all’osteria, sceglie Alice e le comari che discutono di politica e per passare il tempo si divertono a beffare (oggi diremmo bullizzare) il vecchio, sceglie Ford che vorrebbe un matrimonio di interesse per la figlia, sceglie Nannetta e Fenton, innamorati idealisti (forse anche attivisti dei Fridays for future o delle Sardine).

Falstaff arriva nel 1893 – Verdi morirà nel 1901 – e racconta di un uomo al quale piacciono il vino, le belle donne e i soldi. E già qui, basta guardarsi in giro e non c’è che l’imbarazzo della scelta. Un uomo che non si fa problemi a cadere nel ridicolo (quel vestito eccentrico che si mette per corteggiare Alice ricorda i travestimenti da finto-giovane di tanti ultrasessantenni di oggi) e ad essere deriso da tutti. E che si piange addosso una volta scoperta la beffa, ma ci ricasca perché la conquista è qualcosa alla quale non può rinunciare. Viene in mente qualcuno?

L’attualità di un personaggio come Falstaff, ruolo che i baritoni sognano come un calciatore sogna la maglia della nazionale (più i brasiliani o gli spagnoli che gli italiani, per la verità), la racconta la musica di Verdi. Basta ascoltarlo. E restituirlo, così come è scritto. Nulla di più. Che è quello che fa Luca Salsi che ha (finalmente) indossato la maglia della nazionale, debuttando nel ruolo di Falstaff al Municipale di Piacenza in uno spettacolo che il teatro gli ha cucito addosso (repliche il 14 e 16 febbraio a Modena e il 27 e 29 marzo a Reggio Emilia, disponibile su YouTube il video dello streaming della recita di domenica 26 gennaio). Una scelta che arriva (intelligentemente ora, sulla soglia dei 45 anni) nel pieno di una maturità artistica del baritono parmense che ogni volta sorprende per una voce che si espande, acquista in morbidezza, pastosità, lucentezza e fascino: due note e hai la certezza che Salsi “è” Falstaff, verdiano sin nei respiri più impercettibili. Lo è nel solco della tradizione, quella del canto italiano (e verdiano) che scolpisce la parola facendola diventare teatro, certo. Ma lo è in un modo nuovo, tutto suo, marchio di fabbrica inconfondibile delle interpretazioni (umanissime) del baritono. Che, anche dove la regia non lo aiuta (qui Leonardo Lido confeziona uno spettacolo tradizionale con qualche tentativo di avanguardia che resta per lo più incomprensibile), è capace di far arrivare dritto al cuore di chi ascolta il suo personaggio. E di far porre a chi è seduto in platea la domanda fatidica: chi sarebbe/chi è Falstaff oggi? Sono forse/potrei essere io? Che è poi l’approccio più verdiano possibile.

Salsi costruisce il suo personaggio sulla partitura nella quale Verdi guarda al passato nella sua opera più moderna – «torniamo all’antico, sarà un progresso», diceva il compositore, frase che oggi qualcuno brandisce per invocare regie da figurine Liebig, dimenticando che il teatro deve dire a noi qualcosa di noi. Salsi lo fa con un personaggio misuratissimo: spazza via le gigionerie e le caccole che grandi baritoni hanno appiccicato a Falstaff, eppure riesce a strappare il sorriso del pubblico più e più volte; non cade nel buonismo macchiettistico del vecchio sbeffeggiato per strappare compassione, eppure l’emozione (e quasi la lacrima) nel terzo atto si fatica davvero a trattenere. Il suo Falstaff è giovane (ai tempi di Verdi e ancor più di Shakespeare a quarantacinque anni si era vecchi, oggi, per fortuna, ancora giovani) e per questo ancora più tragicomico. E, dunque, moderno. Salsi è musicalissimo, ha fiati infiniti, acuti brillanti, centri e gravi timbratissimi, mezzevoci che colorano il personaggio di una malinconia che non è mai tragica.

Jordi Bernàcer dal podio (orchestra dell’Emilia Romagna Arturo Toscanini e coro del Municipale) lo segue in questa rilettura da dentro del Falstaff verdiano. Tempi comodi, mai troppo precipitosi, sguardo al passato, ma soprattutto a quello che verrà, a quello che Verdi nel suo ultimo capolavoro ha saputo anticipare tracciando la strada per gli operisti di domani. Intorno a Salsi un cast molto buono con punte di eccellenza come Giuliana Gianfaldoni che offre a Nannetta la sua voce di cristallo, i suoi fiati lunghissimi, la dolcezza del suo timbro (un ricamo il suo Sul fil d’un soffio etesio), e Vladimir Stoyanov che è un Ford granitico e dal perfetto accento verdiano (intensa l’aria delle corna). Serena Gamberoni è un’Alice spigliata, Florentia Soare una Meg efficace, Rossana Rinaldi una Quickly puntuale (ma non sempre vocalmente impeccabile). Bello il colore tenorile di Marco Ciaponi che è un Fenton più concreto e meno sognante del solito. Comicamente sempre a tempo Marcello Nardis (Bardolfo), Graziano Dallavalle (Pistola) e Luca Casalin (dottor Cajus).

Tutti in abiti quattrocenteschi (li ha disegnati Valeria Donata Bettella) e “inscatolati” nell’allestimento (scene di Emanuele Sinisi) elisabettiano di Leonardo Lidi: cornice super tradizionale fatta di pochi elementi scenicamente efficaci; a non convincere il ruolo dei quattro mimi (ragazzi a volte in calzamaglia, altre in gonna), servi di scena che contrappuntano il canto con coreografie da tanztheater o si sostituiscono agli oggetti di scena (ma non si capisce perché diventino loro il paravento che nasconde nella scena della cesta Fenton e Nannetta). Peccati veniali di una regia (se è forse troppo macchinoso l’andirivieni delle panche che portano dentro e fuori i personaggi, è bello il finale del secondo atto con la cesta che precipita dall’alto e si spacca) che ha il pregio di raccontare e soprattutto non prevaricare su musica e canto. Canto e musica che ci fanno arrivare i personaggi, Falstaff su tutti, nella loro (disarmante e sorprendente) modernità: vicini di casa, personaggi del piccolo schermo, forse, che ci raccontano, con la musica di Verdi, chi siamo.

Nelle foto @Gianni Cravedi e Mirella VerileFalstaff al Municipale di Piacenza