La luce nuova di Gatti per i Vespri di Verdi

Straordinaria prova del direttore che apre l’Opera di Roma con la versione francese del titolo ambientato in Sicilia Vecchia avanguardia nella regia di Valentina Carrasco

La Storia, che in Verdi fa da sfondo a vicende private (certo politiche, ma soprattutto di affetti) per irrompere solo alla fine nella rivolta dei siciliani nel vespro di una calda giornata del 1282, qui non c’è per nulla. O meglio. C’è, ma trasfigurata, resa astratta in un’estetica – visiva, ma soprattutto musicale – che ha i contorni dell’incubo (di quelli che tanto assomigliano alla vita, però, e te lo fanno sembrare più vero del vero) per provare a farla diventare universale. Perché l’oppressione del forte sul debole, ma anche l’odio cieco e l’incapacità di perdonare, di fare il salto della misericordia, non hanno tempo. Appartengono alla Storia, lo abbiamo studiato sui libri. Ma anche alla storia. E lo sperimentiamo quotidianamente, incapaci di mollare gli ormeggi del cuore di fronte alla durezza (durezza che è come quella della pietra che, a volte, però, va in frantumi – basta provarci)  del pensiero che deve fare il suo corso, incatenato alla ragione. Vederlo (sentirlo) descritto in musica è un pugno nello stomaco. Di quelli che fanno male. Di quelli che ti lasciano addosso un dolore che non è solo fisico, ma soprattutto dell’anima.

Non c’è nulla di rassicurante, anzi, ne Les vêpres siciliennes di Giuseppe Verdi che con la straordinaria direzione di Daniele Gatti e la regia (audace, certo, anche se non sempre riuscita) di Valentina Carrasco ha inaugurato la nuova stagione del Tetro dell’Opera di Roma. Les vêpres perché Gatti, direttore musicale dell’Opera, ha messo sul leggio la versione francese della partitura, andata in scena a Parigi nel 1855. Versione integrale, danze comprese, per quasi quattro ore di musica. Opera concepita e scritta da Verdi “alla francese” sul modello del grand-opéra (le lunghe danze del terzo atto erano d’obbligo), mettendo da parte il modo italiano di fare il melodramma (la trasformerà poi ne I vespri siciliani per l’Italia), ma allo stesso tempo tenendo ben presente (e dandole nuova centralità) l’importanza della parola in musica.

Scelta coraggiosa quella dei Vêpres in versione integrale, proposta culturale di rilievo per il teatro lirico della Capitale, capace, da qualche tempo, di mettere in campo con un respiro sempre più europeo spettacoli che interrogano. Con i quali si può anche non essere d’accordo, certo. Ma che fanno discutere, come dimostrano i dissensi piovuti alla prima sulla regia non solo a fine serata, ma già a metà dei ballabili, risolti dalla Carrasco come un racconto fatto di teatro-danza sui temi cruciali del melodramma.

Temi che – dicono la regista argentina con la sua narrazione asciutta e Gatti con la sua direzione tutta proiettata in avanti, moderna nel restituire un Verdi che parla a noi e di noi e dunque nostro contemporaneo – non sono principalmente (e solo) quelli politici che suggerisce la rivolta (raccontata nel libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier) dei siciliani sugli occupanti francesi. Sono, in questi Vêpres crepuscolari e invernali come l’anima di chi guarda dentro se stesso per ritrovarsi, quelli del cuore: della paternità (e, sorprendentemente in Verdi, della maternità), dell’essere figli, delle radici (territoriali e culturali) da ritrovare, dell’identità da (ri)costruire. Passando inevitabilmente attraverso il dolore. Uccidendo il padre – o forse no, dice il drammatico fermo immagine finale dello spettacolo con i francesi schiacciati dalle mura delle case palermitane e Henri che alza il braccio armato di una pietra contro il padre Guy, ma poi si blocca. L’uomo ha toccato il fondo e da lì può solo rialzarsi.

Lo ha fatto Henri, diviso tra l’amore per Hélène e il padre (ritrovato) Guy e Montfort. Lo ha fatto Hélène che, per vendicare il fratello, non è riuscita a difendere chi (la) ama. Lo hanno fatto Guy e Jean Procida, padri che vorrebbero figli a loro immagine somiglianza. Tiranni, ciascuno a suo modo dice la musica di Verdi, che non giustifica né assolve nessuno. Daniele Gatti la restituisce come mai si era sentita prima. (Ri)plasma e (re)inventa un Verdi nuovo e profondamente fedele a se stesso, apre (o meglio prosegue dopo il Rigoletto dello scorso anno sempre nella Capitale, dopo il Don Carlo scaligero del 2009 e dopo i concerti verdiani tra Italia e Francia) un’inedita via interpretativa che ha la grandezza disarmante della verità e che si radica nel testo musicale, lo scandaglia, lo viviseziona per restituirlo in tutta la sua potenza espressiva. 

Un Gatti in stato di grazia a confermare la sua piena maturità di interprete capace di trasfigurare le orchestre (vedi l’esperienza de laFil e qui il grande lavoro fatto qui con i musicisti e i coristi dell’Opera di Roma che non sono mai stati così intensi nell’aderire, credendoci, al gesto del direttore) e le partiture che tocca. Con il Verdi dei Vêpres Gatti non ha bisogno di suoni sconquassanti, di volumi muscolari per colpire nel segno. Lo fa (commuovendo) lavorando per sottrazione in una lettura meditata nota per nota, costruita passo dopo passo in ogni colore, in ogni dinamica, in ogni intenzione chiesta e ottenuta in orchestra e sul palco con un lavoro di cesello che ha la potenza della creazione artistica che trasforma il particolare in universale. Così i Vêpres si dispiegano nuovi – già dalla celeberrima Sinfonia – e allo stesso tempo fedelissimi a Verdi nel restituire un teatro di parola in musica. 

La vera regia è tutta in orchestra, nel suono che crea atmosfere e racconta sentimenti, intimo, ma anche capace di bordate secche e taglienti (e dunque ancora più inquietante nella loro freddezza) laddove quella teatrale di Valentina Carrasco (uscita dalla fucina della Fura del Baus) sembra latitare. La regista apparecchia uno spettacolo tutto sommato tradizionale, che nell’estetica – dato che a firmare le scene c’è Richard Peduzzi che disegna i suoi soliti muri mentre i costumi sono di Luis F. Carvalho – potrebbe ricordare un qualsiasi spettacolo di Patrice Chereau o di un’Emma Dante scaligera, ma che nei contenuti appare confuso perché non riesce a rendere ragione e portare sino in fondo la scelta di fare dei siciliani operai vagamente anni Settanta/Ottanta e dei francesi i soliti soldati nazifascisti.

Il racconto (che comunque c’è ed è leggibile) mette in campo alcune idee di forte impatto come Guy che culla la sedia pensando al figlio perduto, la donna che esce da una pietra spaccata a colpi di martello, il finale con Henri che ferma la mano omicida mentre i francesi soccombono, ma è infarcito anche dei più ovvi stereotipi da teatro di ricerca (peccato perché anche qualche idea interessante così perde potenza) specie nei ballabili (coreografa dalla stessa Carrasco insieme a Massimiliano Volpini): le bambole, i secchi pieni d’acqua, le donne gravide, gli stupri… il tutto condito da urla che disturbano la musica (e che hanno scatenato le vivaci proteste a scena aperta).

E anche il canto, specie nelle scene di massa, piene ed ipercinetiche, rischia di passare in secondo piano, perso, quello dei solisti, nella confusione che si crea in scena. La mano salda di Gatti (che canta, appassionato, dal podio) riesce sempre a rimettere al centro la musica e il canto che il direttore vuole misuratissimo, mai esteriormente fine a se stesso, in pianissimi che sono pura poesia, come nella grande scena del terzo atti di Monfort o nel duetto del quarto atto tra Hélène ed Henri. Interpreti scelti ad hoc (belcantisti, ma non solo) per questo nuovo Verdi, tutti perfetti nell’aderire a questo disegno, intensi e commoventi (e qualche difetto tecnico in tutto questo passa in secondo piano) nel restituire l’umanità dei personaggi. John Osborn è un Henri lirico e dolente, che insegue una felicità che la vita non gli può dare. Roberta Mantegna disegna con la sua voce dal timbro luminoso un’Hélène tormentata e in balia dei sentimenti e degli avvenimenti. Roberto Frontali  colora di sfumature malinconiche e crepuscolari Guy preferendo mettere in luce le fragilità dell’uomo piuttosto che le sinistre certezze del tiranno. Michele Pertusi mette il suo stile inconfondibile, elegante, ma che sa sporcarsi le mani con la vita, nel disegnare un Jean Procida incapace di perdono. Ottima la squadra che affianca i quattro protagonisti: Irida Dragoti (Ninetta), Saverio Fiore (Thibault), Francesco Pittari (Daniéli), Daniele Centra (Mainfroid), Alessio Verna (Robert), Dario Russo (Le sire de Bethune) e Andrii Ganchuk (Le comte Vaudemont). 

Nelle foto @Yasuko Kageyama Opera di Roma Les vêpres siciliennes

Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 12 dicembre 2019