La Semiramide di Vick ha il complesso di Edipo

Diario Rossiniano 2019.2

Il capolavoro di Rossini inaugura l’edizione 2019 del Rof nell’allestimento psicologico e moderno del regista britannico Esaltante la direzione d’orchestra di Michele Mariotti Protagoniste intense Salome Jicia e Varduhi Abrahamyan

Le spalle al pubblico, seduto (seduta) sul trono con lo sguardo fisso nel vuoto, mentre il suo disegno di bambino (bambina) – enorme scenografia con il tratto infantile a evocare una donna che uccide un re in lacrime – ormai è carta straccia, non serve più perché è stato decifrato e ora è accartocciato dai sudditi che lo (la) acclamano come loro nuova guida. Arsace è diventato (diventata) adulto(a). Ma ha pagato un prezzo enorme, il prezzo che la vita ti fa pagare per crescere, per affrancarti dal bambino che eri e diventare l’uomo che sei (dovresti/vorresti essere). Il dolore che pesa sul cuore è lì davanti agli occhi di Arsace: la madre distesa a terra, morta, relitto della regina che è stata, ma ancora madre, anche se cadavere, madre ritrovata e subito persa. Uccisa da Arsace.

Semiramide – dice con Edipo e Freud il regista Graham Vick – è il padre (la madre) da uccidere per affermare la propria identità. Che, però, Arsace non sa ancora bene quale sia. Almeno così sembra dire il suo sguardo perso nel vuoto. Lo dice anche la drammaturgia della Semiramide di Gioachino Rossini che domenica 11 agosto ha inaugurato l’edizione numero quaranta del Rossini opera festival di Pesaro con Michele Mariotti protagonista di una lettura esaltante e perfetta sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai. Perché nel libretto di Gaetano Rossi la storia si compie solo in parte, molti destini restano in sospeso: che fine fanno Azema e Idreno, ad esempio? Ma poco importa. Li compirà la vita. Che per Arsace inizia ora, dopo aver fatto chiarezza sul suo passato, dopo aver dato un nome agli incubi di bambino (bambina) che metteva nei suoi disegni. Dopo averli affrontati e sconfitti (?). Lo sguardo perso nel vuoto lascia più di un dubbio, anche se la musica (in partitura) è trionfale. Mariotti la smorza, la colora di inquietudine con un rallentando che sembra infinto sull’accordo finale, quasi un sospiro, un fiato preso lungo per affrontare, da ora, la vita.

Stona, stride il sentimento nello spettacolo di Vick e ti manda a casa con un malessere che è dell’anima, ma anche fisico. Perché ti chiedi se quel bambino (bambina) che ha compiuto una discesa negli abissi della sua anima non sei un po’ anche tu che, per più di quattro ore sei stato seduto su una poltrona della Vitrifrigo Arena di Pesaro come se fosse il lettino dello psicanalista. Sul quale, spesso, si sta scomodi. Ma alla fine della Semiramide di Mariotti non ti sembra siano passate quattro ore: partitura in versione integrale, edizione critica della fondazione Rossini curata da Philippe Gosset e Alberto Zedda, dove anche i recitativi secchi che arrivano al termine delle arie e dei duetti hanno la loro necessità teatrale. Necessità drammaturgica e musicale che Mariotti e Vick sfruttano per il loro racconto. Astratto e simbolico nella musica pura di Rossini che Mariotti esalta con una lettura (pima di tutto esteticamente bella) che scava nel profondo della partitura sbalzando ogni minimo dettaglio, raccontandone (credendoci) la grandezza, mettendosi al servizio del (bel)canto e rendendo carne viva il sentimento.

Sentimento palpitante nello spettacolo (a tratti astratto) di Vick dominato da due occhi che ti guardano e ti costringono a guardarti dentro, a scendere negli abissi della tua anima per capire davvero chi sei, anche a costo di soffrire. Il percorso compiuto da Arsace. Che deve scendere nel buio della tomba del padre (quanto è buia, nonostante il vestito luminoso della vita esteriore, l’anima vestita a lutto per la scomparsa di un genitore) per dare un nome ai fantasmi che lo tormentano. Due occhi che ingombrano l’enorme palcoscenico pesarese, scenografia astratta e simbolica che Vick ha chiesto a Stuart Nunn per raccontare da dentro il dramma di Arsace. Perché è questo l’effetto che fa vedere girarsi i pannelli sui quali si stagliano i due grandi occhi (in un azzurro/grigio che è quello di alcuni sogni/incubi notturni): prima frontali, poi eccoci dentro quello sguardo – che sono gli occhi di Nino, padre di Arsace e marito assassinato di (e da) Semiramide – per provare a vedere il mondo con altri occhi, non solo la nostra prospettiva, ma quella dell’altro. Occhi sui quali pian piano prende forma il disegno che racconterà la verità: Semiramide e Assur hanno assassinato Nino, hanno allontanato il figlio Ninia che è stato salvato mettendogli il nome di Arsace. Ora tutto si svela, come al termine di un (doloroso) transfer. E il risveglio è traumatico, non potrebbe essere altrimenti.

Guardarsi dentro come se fosse un altro a metterci di fronte a noi stessi. L’altro che ci affascina e allo stesso tempo ci inquieta. L’atro che per Arsace è Semiramide, regina da servire, regina che, lo (la) ama e lo (la) inquieta. Ed ecco uno dei segni forti (saranno dovuti anche a questo i fischi piovuti addosso al regista britannico?) voluti da Vick, Arsace (ruolo che Rossini ha scritto per un mezzosoprano e sempre cantato en travesti) non indossa abiti maschili, ma un tailleur pantalone e tacchi a spillo e ha i capelli sciolti: è donna. Ama Azema (che è donna) ed è amata da Semiramide (donna in pantaloni e capelli a spazzola ossigenati, ma ci sta per una regina che ha dovuto guidare da donna vedova le sorti del suo regno). Love is love sembra dire il regista ammiccando a sfilate arcobaleno e pride dei diritti, anche se alla prova dei fatti non chiede agli interpreti nessun gesto che risulti volgare o gratuito. Tutto scorre naturale. Vero. Perché è qui la forza dirompente (ancor più di qualsiasi dichiarazione di intenti gender o di qualche citazione pop come il grande orsacchiotto di peluche che ogni tanto compare in scena) di una regia che, in un contesto astratto che mischia epoche e stili (Semiramide, Assur e Arsace nei loro costumi moderni, Azema, Idreno e Oroe vestiti sempre da Stuart Nunn secondo la tradizione, una principessa assira, l’altro nobile indiano, l’ultimo sacerdote/sciamano) e punta sul simbolismo del racconto, rende credibile e vera (eccezionale la resa teatrale del duetto Semiramide/Assur) una storia di uomini che non ha tempo. Non tutto funziona, certo: qualche idea messa sul tavolo non viene poi approfondita (il bimbo che appare come una visione a Semiramide nella prima parte a un certo punto sparisce) o portata avanti con coerenza sino alla fine. Ma lo spettacolo ha sicuramente il pregio di far riflettere. Che poi dovrebbe essere sempre il ruolo dell’arte.

A far diventare carne e sangue Semiramide e Arsace sono Salome Jicia e Varduhi Abrahamyan, eccellenti interpreti capaci di fare teatro in un palcoscenico vuoto e musiciste che trovano nella scrittura rossiniana il loro territorio ideale: la Jicia ha acuti e agilità, ma soprattutto il peso drammatico per disegnare i tormenti della regina di Babilonia, la Abrahamyan sfodera un colore bellissimo che riveste di tecnica e passione. Insieme regalano momenti intensi, così come lasciano il segno le due arie di Idreno che ha lo squillo generoso di Antonino Sirgausa. Un Assur non così perfido quello disegnato da Nahuel Di Pierro. Azema ha la dolcezza di Martiniana Antoine, Oroe e l’Ombra di Nino i colori scuri di Carlo Cigni e Sergey Artamonov, Mitrane la puntualità di Alessandro Luciano.

Nelle foto @Amati/Bacciardi Semiramide al Rossini opera festival