Lo sguardo di Franco Zeffirelli sull’arte di vivere

Il ricordo del grande regista fiorentino scomparso a 96 anni dopo una vita tra cinema, teatro e opera lirica

Due occhi intensi. Che guardavano lontano. Quasi a cercare, nel cielo azzurro di un pomeriggio romano di fine novembre, quella che, oggi, è la sua nuova “casa”. Ultima istantanea che ho di Franco Zeffirelli. Che gli acciacchi dell’età forse mal li sopportava perché la sua mente era sempre in attività, progettava, ideava, provava a trovare una nuova interpretazione di un’opera che, magari, aveva già messo in scena diverse volte. Come la Traviata che venerdì inaugurerà la nuova stagione dell’Arena di Verona. Un progetto che aveva sul tavolo insieme a un Rigoletto che avrebbe dovuto realizzare nel 2020 per l’Oman. Ma da sabato 15 giugno Franco Zeffirelli ha raggiunto gli amici di sempre nell’eternità.

«Quello che davvero mi manca è il contatto spirituale con le persone. Il pensare insieme, il creare insieme arte» diceva. Guardava lontano. Perché, da uomo di fede come non ha mai nascosto di esserlo – «nonostante i miei peccati», ammetteva – era convinto che «dobbiamo sperare. Solo quello. Affidarci e sperare. La fede è un dono, ne sono certo. L’ho avuto e devo tenerlo stretto». Parole che ricordo ancora bene, dette, quasi sussurrando, l’ultima volta che l’ho incontrato nella sua casa romana sull’Appia Antica. Quattro chiacchiere in giardino. «Spesso mi metto qui. Guardo la natura. Il cielo. E penso. Penso che il passato non torna. Ma non mi intristisco perché ho avuto una vita piena, nonostante sia partita in salita: figlio illegittimo, una mamma morta quando avevo solo sei anni, cresciuto da una zia». Poche parole, con una voce che usciva un po’ a fatica rispetto a quando muoveva le masse sui set cinematografici o a quando indicava ai coristi come sfilare nella Marcia trionfale di Aida. E quegli occhi che, dopo aver guardato lontano, si sono chiusi per qualche momento di riposo. L’ho visto così l’ultima volta, in una sala della sua casa: le tapparelle abbassate, una coperta sulle gambe. Oggi, quegli occhi, si sono chiusi per sempre. Franco Zeffirelli se ne è andato a 96 anni.

Una casa a Roma, ma Firenze, la città dove era nato il 12 febbraio 1923, sempre nel cuore. Anche a livello calcistico dato che era accanito tifoso della Fiorentina. Di recente, poi, nel capoluogo toscano, l’inaugurazione dell’ambizioso progetto della fondazione dove conservare il suo immenso patrimonio: i suoi bozzetti, i suoi costumi, le foto dei suoi spettacoli. La sua foto che sorride, gigante sulla scalinata del palazzo che il Comune gli ha offerto in piazza San Firenze accanto alla chiesa di San Filippo Neri.  «Firenze se ti è amica ti esalta, ma se ti è ostile è capace di distruggerti» diceva un po’ a denti stretti indicando le molte stampe d’epoca con i palazzi e le piazze del capoluogo toscano alle pareti di casa, ma anche le foto scattate nei giorni dell’alluvione del novembre del 1966.

Zeffirelli, che all’anagrafe era Gian Franco Corsi (il padre lo riconobbe solo quando aveva 19 anni dopo che la madre si inventò un cognome pensando agli “zeffiretti” cantati da Ilia nell’Idomeneo di Mozart), dopo gli studi al collegio del convento di San Marco con Giorgio La Pira, si diplomò all’Accademia di belle arti di Firenze. Un’infanzia raccontata nel film Un tè con Mussolini. Da subito una grande passione per l’arte e lo spettacolo: le trasmissioni a Radio Firenze, gli spettacolo con il teatro universitario, una comparsa fugace sul grande schermo, nel 1947, ne L’onorevole Angelina di Luigi Zampa. Poi nel 1949 l’esordio come scenografo e costumista a Firenze per il Troilo e Cressida di Shakespeare con la regia di Luchino Visconti. La lunga collaborazione con Visconti, «che per me è stato come un padre», in teatro e sul set cinematografico per La terra trema e Senso. Poi la carriera registica iniziata nel 1954 al Teatro alla Scala con la Cenerentola di Rossini. Il primo film, Camping, nel 1957. Da allora regie liriche il tutto il mondo, dal Metropolitan di New York al Covent Garden ai kolossal pensati dagli anni Novanta per l’Arena di Verona. «La mia Bohème va ancora in scena e ogni volta che si apre il sipario sul quartiere latino mi dicono che scatta l’applauso» raccontava orgoglioso. Così come capita con Aida. «Ma la mia versione preferita resta quella in miniatura fatta per Busseto nel 2001». La meno trionfalistica. Che a ottobre tornerà a casa per il Festival Verdi. «Teniamoci in contatto, noi che amiamo la musica» la frase con cui si chiudevano molte delle nostre chiacchierate. Perché la lirica è stata la passione di una vita di Zeffirelli

In più di settant’anni di carriera anche molta prosa, Shakespeare ed Eduardo all’Old Vic di Londra, Schiller (una Maria Stuarda  con Valentina Cortese e Rossella Falck) e Pirandello, Arthur Miller in Italia. E il cinema, da Cinecittà ad Hollywood. Shakespeare anche qui, nel 1967 La bisbetica domata, l’anno successivo Romeo e Giulietta con le voci inconfondibili di Anna Maria Guarnieri e Giancarlo Giannini come doppiatori italiani. Amleto arriverà nel 1990. Le opere liriche portare sul grande schermo  e in tv come Cavalleria rusticana e Pagliacci con Placido Domingo, Traviata con Teresa Stratas e Otello con Carlos Kleiber. Ma anche una pellicola mai girata. «Aida doveva diventare un film. Me lo chiese il presidente egiziano Sadat. Per due mesi feci i sopralluoghi, ma poi, l’uccisione del presidente mandò tutto a monte». Nel 2002, invece, un omaggio «a una delle grandi donne della mia vita», Callas forever: «Maria non poteva reggere il peso della vita, se ne è andata troppo presto, ma la porto sempre nel cuore».

Fratello sole, sorella luna è del 1972 mentre il Gesù di Nazareth del 1977, anno in cui Zeffirelli è stato nominato Grand’ufficiale al merito della Repubblica italiana. «Penso che quel film sia il mio capolavoro. L’idea del sacro è fraintesa perché entra nella vita solo come una medicina per lenire i dolori, quasi un elisir magico. Io ho voluto invece raccontarlo come un aspetto che fa parte del quotidiano, un qualcosa che interroga e scuote e che deve aiutarci a scoprire le ragioni per cui Dio ci ha fatto e per cui ci ha dato talenti da far fruttare» ricordava a celebrando i 35 anni dall’uscita della pellicola. «Ci ho messo dentro la mia fede, quella alla quale mi sono aggrappato nei momenti difficili, da peccatore certo, ma soprattutto da uomo che ha sempre riposto la fiducia nel Signore» diceva ricordando poi «tutti i dolori e i drammi che ho vissuto nella mia vita, penso a quante persone care ho dovuto accompagnare nell’ultimo viaggio, li ho vissuti in una dimensione di speranza».

Una vita privata mai esibita. Schivo, Zeffirelli, nel raccontare della propria omosessualità, dimensione che lo ha sempre interrogato. Due figli adottivi, Pippo e Luciano, che lo hanno accompagnato nel mondo nelle sue avventure teatrali e cinematografiche e che gli sono stati a fianco sino all’ultimo. Nella casa piena di foto, tra gli amici di un tempo e gli artisti con cui ha lavorato, anche uno scatto del suo incontro con Papa Francesco. «In Bergoglio ho ritrovato quello spirito francescano che ho voluto mettere in Fratello sole, sorella luna» spiegava. Accanto alle foto i molti riconoscimenti: cinque David di Donatello, due Nastri d’argento, ma anche  14 nomination all’Oscar per Zeffirelli che per due legislature, dal 1994 al 2001, è stato senatore nelle file del centrodestra. «Sono sempre stato appassionato nelle mie lotte civili, dalla militanza partigiana sino all’impegno politico con il centrodestra». Un impegno politico specie per varare una riforma dello spettacolo italiano. Impegno riconosciuto anche all’estero: nel 2004 la nomina da parte della regina Elisabetta a Cavaliere Commendatore dell’Impero britannico.

«Quante cose ho fatto. Mi stupisco guardando indietro» confidava Zeffirelli che negli ultimi anni, dopo aver progettato un nuovo film su San Francesco, aveva detto addio al cinema. «Non mi tenta più, anche perché per farlo bene occorrono energie immense». Sognava ancora, però. La fondazione, la formazione dei giovani. «Molti mi chiedono come ho fatto a fare tutto quello che ho fatto. Una ricetta non c’è, sicuramente occorre darsi basi solide, avere una vita che poggi su un’etica che possa orientare tutto quello che si fa» rifletteva. Ma nei suoi pomeriggi in giardino guardava oltre. «Il paradiso? Immagino possa essere un luogo dei ricordi dove la nostra vita sarà compiuta dall’incontro con Dio». Franco Zeffirelli si è messo in viaggio verso quell’incontro.

Articolo pubblicato su Avvenire del 16 giugno 2019