Incubi in formato tv nella Città morta di Vick

Per la prima volta alla Scala l’opera di Korngold del 1920 riletta dal regista britannico e con la bacchetta di Gilbert Straordinaria protagonista il soprano Asmik Grigorian

Erano gli anni Novanta. E già questo evoca tutto un immaginario. In tv e sui cartelloni per la strada – perché i sociale non c’erano ancora – c’era la pubblicità di un’automobile (il modello c’è ancora, la casa è stata acquisita da un altro marchio) che diceva «Piace alla gente che piace». Non so da dove venga questo tuffo nei ricordi, è riaffiorata. Ed è lo slogan perfetto per Die Tote Stadt di Eric Wolfgang Korngold. Non per l’opera in sé. Ma per l’allestimento in scena al Teatro alla Scala dove la partitura del musicista austriaco arriva per la prima volta: composta nel 1920 non era mai approdata sul palcoscenico del Piermarini nonostante la discreta fortuna che la vede in cartellone in diversi teatri. Piace alla gente che piace. Alla gente che conta. A quella che ne sa e che frequenta spesso i teatri d’opera. Piacere intellettuale per l’allestimento firmato da Graham Vick. L’impressione, però, è che la lettura (compiuta e interessante, diciamolo subito per sgombrare il campo da dubbi perché il lavoro è approfodnito) del regista britannico non sia per tutti. Perché occorrono molte coordinate (storiche e musicali, ma anche letterarie e psicologiche) per muoversi, senza perdersi, nell’intreccio che Vick mette in scena in un continuo corto circuito tra la biografia di Korngold e il libretto di Paul Schott che adatta il romanzo Bruges-la-morte di Georges Rodenbach (da qui Alfred Hitchcock prese spunto per il suo film Vertigo. La donna che visse due volte). Operazione intellettualmente interessante, si diceva, per l’opera datata 1920.

La storia è quella di Paul, un vedovo che trova nella ballerina Marietta una copia (inquietantemente) perfetta della moglie morta, quella Marie per la quale ha costruito un santuario – il ritratto, lo scialle, il liuto, la treccia bionda, tutti oggetti conservati in una teca di vetro all’ombra del ritratto della defunta – dove si aggirano i suoi fantasmi. Fantasmi di morte. Fantasmi di follia. La luce arriva con Marietta che Paul corteggia, venendo, però, subito assalito da inquietanti visioni che una volta svanite (la catarsi si compie quando strangola la ragazza con la treccia di capelli della moglie e il sogno si volatilizza) lo convinceranno a lasciare Bruges, la città morta del titolo. Dentro ci sono le inquietudini che si affacciano sul mondo a inizio Novecento. C’è la lezione di Freud. Indubbiamente.

Vick fa diventare gli incubi del protagonista quelli del compositore austriaco che, per via delle sue radici ebraiche, dovette emigrare negli Stati Uniti facendo fortuna ad Hollywood come compositore di colonne sonore cinematografiche. Così sul palco le visioni di Paul si materializzano in inquietanti anticipazioni dei campi di concentramento con gli ebrei deportati e i nazisti aguzzini. Così i chierichetti che sfilano in processione sotto la verste rossa e la cotta bianca indossano la divisa della gioventù nazista. Un velo bianco, che è la parte della casa di Paul, si alza e getta lo spettatore sull’orlo dell’abisso.  «Fin quando dovrà spingersi il nostro lutto, fin dove potrà spingersi senza sradicarci dalla vita?» si chiede Paul lasciando Bruges. E in platea non puoi non domandarti da cosa dobbiamo liberarci noi oggi? «I morti mandano sogni del genere quando viviamo troppo con loro e in loro» ammonisce Paul. Quali sono i morti che ci mandano questi sogni/incubi? Dobbiamo liberarci dalla memoria dell’Olocausto? ti chiedi vedendo la complessità intellettuale messa da Vick nel suo spettacolo. La risposta non può essere affermativa, conoscendo l’impegno civile del regista. Certo, però, non è immediata. Istintivamente, di pancia, vedendo uno spettacolo così diresti questo. Poi, a mente sgombra dall’emozione, razionalizzi. E capisci (ma anche qui, davvero tutto il pubblico ha a disposizione tanti e tali strumenti?) che lo spettacolo è una riflessione sul potere delle immagini, sul rischio per una società tutta immersa nei social di vivere una second life, un mondo parallelo dove il piano della realtà torna completamente deformato.

Le atmosfere messe in palcoscenico da Vick (con l’approto delle immancabili coreografie di Ron Howell) sono quelle degli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Ma sono anche quelle del nostro mondo, “sporcate” dalla tecnologia di schermi tv (immancabile la telecamera che rimanda immagini in presa diretta o il ritratto di Maria che si palesa su un tv led) sui quali compaiono frammenti di oggetti, ombre che si allungano sul racconto simbolista che il regista conserva tale. Una grande tenda bianca (le scene e i costumi sono di Stuart Nunn, le luci di Giuseppe Di Iorio) è il perimetro dentro il quale, in una maniacale e ordinata semplicità, si muovono i personaggi. Una tenda che si alza e scopre ciò che non si può dire. Ciò che l’inconscio assorbe ed elabora restituendolo deformato (stratagemma che permette di mettere in scena di tutto e di più). Teatro nel teatro con luci e americane a vista, che scendono e salgono, diventano i luoghi dell’azione nel sogno/incubo (a proposito, peccato aver spezzato il racconto con due intervalli, interrompe l’arcata drammaturgica delle visioni del secondo e terzo quadro). E alla fine, quando Paul decide di lasciare Bruges le scene scompaiono, il palco resta vuoto, nudo. Come a dire che ogni illusione, compresa quella del teatro, è finita.

La psicanalisi aleggia nel racconto e nella musica. Che è bella da togliere il fiato. Dento ci sono Richard Strauss e Puccini. C’è Mahler. C’è la Seconda scuola di Vienna. Un magma musicale che Korngold scrive a 23 anni ispirato dal clima effervescente che lo circondava. Lo fa, però, senza scrivere “alla maniera di…” ma assimilando uno stile, un clima e restituendolo con un suo stile. Ha già nella penna il respiro cinematografico nel raccontare la Città morta con dissolvenze e primi piani. Musica che ti prende dalla prima all’ultima nota. Musica e magma che dal podio Alan Gilbert governa ed esalta in una prova convincente, tesa e attenta alle citazioni, ma anche al marchio di fabbrica di Korngold., Una direzione sempre al servizio del racconto scenico. Dove Vick è insuperabile perché fa recitare i cantanti come attori cinematografici, appunto, capaci di esaltare, nel cinemascope del palcoscenico, dettagli (le mani di Paul e Marietta che si sfiorano nel primo duetto) come se avessero la telecamera puntata addosso.

Marietta è una straordinaria Asmik Grigorian, voce a volontà, tecnica sicura, ma soprattutto doti da interprete che calamitano l’attenzione. Entra in scena ed “è” Marietta. Naturale (anche nel costume che la vede danzare quasi nuda alla fine del primo atto), spontanea, vera in un racconto che per arrivare (ed essere credibile) deve toccare necessariamente le corde dell’emozione. Klaus Florian Vogt piega la sua voce alla scrittura impervia che Korngold vuole per Paul, personaggio con una tessitura acuta e una presenza in scena pressoché continua durante tutto lo spettacolo. Markus Werba si conferma ogni volta grande interprete e raffinato musicista, in continua crescita e sempre capace di stupire per la lettura intelligente che fa dei suoi personaggi: qui sono Frank, l’amico di Paul che Werba fa misurato e indagatore, e Fritz/Pierrot al quale Korngold affida un lied stupendo che il cantante austriaco rende intenso e ammaliante.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Die Tote Stadt

Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 5 giugno 2019