Martone candida Musorgskij alle primarie del Pd

Alla Scala straordinaria Chovanščina con un ispirato Gergiev che offre una lettura intima e raccolta del capolavoro russo Tra politica di ieri e un futuro alla Blade Runner lo spettacolo

Criticare, contestare una regia di Mario Martone non è (radical) chic. Così alla prima di Chovanščina di Modest Musorgskij al Teatro alla Scala qualcuno ha pensato di non manifestare subito il proprio dissenso, all’uscita del regista insieme a tutta la squadra che ha ideato il nuovo spettacolo, ambientato in un futuro grigio alla Blade Runner: applausi, ma meno intensi di quelli trionfali riservati (giustamente, diciamolo subito) a Valery Gergiev. I buu (non tanti, isolati, certo, ma udibili) sono arrivati in un secondo tempo, quando Martone è tornato alla ribalta: qualcuno ha preso coraggio e ha voluto dire la sua, manifestando un dissenso in mezzo a un trionfo pieno, pienissimo – e, come detto, meritatamente, senza riserve – per Gergiev e tutta la squadra vocale che ha riportato a Milano dopo vent’anni il capolavoro di Musorgskij proposto nell’orchestrazione di Dmitrij Šostakovič.

L’impressione, magari sbagliata, intendiamoci, è che certi registi (ma il discorso si allarga ad attori, musicisti, comici, artisti in genere e anche intellettuali, opinionisti…) vadano applauditi a prescindere… per partito (?!) preso… forse per non fare la figura di quelli che non capiscono, di quelli che non afferrano il profondo significato del lavoro, di quelli che non comprendono le implicazioni sociologiche e psicologiche, i risvolti politici (parole care all’impegno militante della sinistra contestatrice anni Settanta e Ottanta) di uno spettacolo. Nel dubbio meglio applaudire.

Così i consensi di chi «questa rilettura ha detto moltissimo» (chissà cosa risulterebbe se si facesse un sondaggio all’uscita sui contenuti di ciò che si è visto…?), dell’intellighenzia che frequenta le prime scaligere extra7dicembre hanno contagiato molti. Ma non tutti. Qualche dissenso per uno spettacolo che, diciamolo subito, è tecnicamente impeccabile, non manca di idee, alcune anche buone e riuscite nella rilettura pseudocontemporanea del capolavoro di Musorgskij. Perché non c’è nulla (o quasi) che non funzioni nella Chovanščina di Modest Musorgskij salutata alla prima con dodici minuti di applausi e in scena sino al 29 marzo.

Se va avanti così per quattro ore lo spettacolo è di quelli che fanno la storia, pensi mentre si apre il sipario e sul palco prende forma un mondo prossimo venturo, fatto di macerie di cemento armato, di torri in metallo dalle quali escono lingue di fuoco: la somiglianza, certo, non è voluta, ma il ponte crollato (e in genere l’estetica complessiva) ricorda in modo impressionante l’inaugurale Attila verdiano. Un mondo sorvolato da droni, grigio, avvolto nei fumi dell’inquinamento con un’umanità che si muove nell’ombra. Un mondo, come detto, alla Balde Runner, citazione nemmeno più di tanto nascosta da Martone, che racconta in un futuro che sa molto di presente – o meglio, che sa di futuro visto, però, come lo si vedeva negli ani Settanta – una storia che il libretto colloca nella Mosca del XVII secolo. Quella dei fatti che portarono al potere Pietro il Grande. Grande teatro per tutto il primo atto. Tutto funziona. O quasi. Perché poi la forza creativa di Martone sembra spegnersi in una regia che è tecnicamente impeccabile (non sovrasta mai la musica), ma che non affonda il colpo nemmeno nel finale dove al sacrificio volontario dei vecchi credenti si sostituisce un’Armageddon con un astro infuocato che piomba sul mondo. Una regia che non ha forse il coraggio di assestare quel pugno nello stomaco necessario (non lo sono certo le escort che ammiccano alle feste eleganti di Arcore durante le danze persiane) quando si maneggia una materia come quella messa da Mussorgskij nella sua Chovanščina.

L’impressione, alla fine, è di uno spettacolo che sa di vecchio Partito comunista, impregnato delle istanze culturali che nei collettivi era un diktat sposare per poter indossare il marchio distintivo dell’eskimo. Uno spettacolo grigio e monocromo (le scene sono di Margherita Palli, i costumi di Ursula Patzak, le luci di Pasquale Mari, il video – retroproiezioni su telo in tempi di ledwall – di Italvideo service) che ha l’odore del ciclostile delle sezioni di provincia dove intorno al Sessantotto sono cresciuti quelli che oggi nel Pd fanno (meglio dire facevano?) la fronda a Renzi e alle sue istanze di rottamazione. E che alle primarie voteranno Zingaretti. Conservatore? In un certo senso sì, nonostante la confezione moderna. D’altra parte la materia è ghiotta, una partitura che viene dalla Russia, quella che tanto piaceva ai compagni degli anni Settanta (oggi le simpatie si sono spostate, dopo Cuba, verso il Sud America), una storia che racconta di resistenza al potere e di un popolo oppresso. Così la militanza culturale si sposa alle cause sociali nel racconto di un Seicento che si specchia nel nostro oggi/domani.

Il salto temporale è drammaturgicamente giustificato perché a Musorgskij non interessa mettere uno in fila all’altro, con rilevanza storiografica, i fatti, ma raccontare la Storia, quella che dovrebbe essere maestra per chi la apprende. Cosa che non sempre (quasi mai, forse) accade dice Martone dimostrando che la violenza non ha tempo, che la lotta per il potere è comune agli uomini di ogni tempo, così come i mezzi usati per ottenerlo e conservarlo. Un mondo dove la tecnologia porta gli uomini (perennemente con gli occhi sullo smartphone) ad un analfabetismo di ritorno che implica inevitabilmente più facile manipolazione da parte del potere. Un mondo dove computer, macchine da scrivere, calcolatori sono reperti di un’unica archeologia che qualcuno conserva non per una smania accumulativa, ma per un disperato tentativo di conservazione di valori ormai dissolti: lo scrivano; Marfa che porta in sé, nella capacità di profetizzare, tracce di una antica sapienza; la comunità dei vecchi credenti che scelgono il martirio piuttosto che la fine per mano del nemico.

Quadri musicali quelli messi sul pentagramma da Musorgskij, pennellate di storia che emergono dalla nebbia e nella nebbia ritornano, in dissolvenza cinematografica, con personaggi    a due dimensioni, senza forse la profondità psicologica, ma con quella (classica) tragicità che ricorda Dostoevskij. Così li racconta la strepitosa lettura musicale di Valery Gergiev che ha scelto l’orchestrazione che di Chovanščina (lasciata incompiuta dall’autore nella versione per canto e pianoforte) ha fatto Dmitrij Šostakovič, la più cupa, la più impregnata del dolore della storia che il direttore restituisce in una dimensione intima, ripiegata su se stessa anche nelle scene di massa che diventano tappe di un percorso di dolore e redenzione. Gergiev incanta tenendo sempre alta la tensione drammatica per più di tre ore grazie alla trasfigurata orchestra scaligera, al coro (straordinario, imponente protagonista) di Bruno Casoni. E grazie ad una squadra vocale di interpreti (quasi tutti) russi e usciti dalla fucina del Teatro Mariinskij dove Gergiev è lo zar musicale incontrastato.

Giganteggia Ekaterina Semenchuk, una Marfa risoluta e dolente che piega la sua voce alla lettura intima chiesta da Gergiev: incredibile come il mezzosoprano riesca a cantare quasi sussurrando (senza mai far perdere una nota) nella scena della profezia o nel colloquio (durante il quale Martone la costringe in una gabbia angusta) con la vecchia Susanna, ma anche a svettare nel tragico finale dove si immola con l’amato Andrej e i raskol’niki, i vecchi credenti. Mikhail Petrenco un energico (e fisicamente prestante) Ivan Kovanskij. Sergey Skorokhodov è un tormentato Andrej, Stanislav Trofimov un solido Dosifej, il capo dei raskol’niki. Evgeny Akimov è il principe Golicny, Alexey Markov è Saklovityi. E poi c’è Evgenia Muraeva: un lusso avere il soprano, rivelazione due anni fa a Salisburgo nella Lady Macbeth di Šostakovič (dove sostituì come Katerina Nina Stemme), nel breve ruolo di Emma.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Chovanščina