Michieletto infila Macbeth in un sacco di plastica

La tragica perdita di un figlio nella rilettura dell’opera di Verdi che il regista porta alla Fenice di Venezia con Chung sul podio Luca Salsi e  Vittoria Yeo interpreti trasfigurati dalla musica

Un palloncino che sale verso l’alto. Trasparente. Attaccato a un filo rosso. Rosso come il vestito della bimba che per inseguirlo è caduta in una fossa. Ed è morta, lasciando l’altalena sulla quale giocava vuota e ondeggiante nel nulla. Una fossa… e ti viene un brivido. Ti risuonano sinistre in testa le parole della Lady: «Dalla fossa chi morì non surse ancor». Lei lo ha capito. Solo nel momento della follia, però. A un passo dal baratro. Quando la mente sembra totalmente annebbiata, incapace di mettere a fuoco la realtà, ma, forse, vede davvero per la prima volta le cose in modo chiaro. Macbeth, invece, insegue inesorabile quel palloncino (fantasma che sfugge, inafferrabile come il sogno). Vorrebbe tornare indietro. Forse per essere lì, sul luogo dell’incidente. Chiede «Pietà, rispetto, onore… conforto» per i giorni che gli restano da vivere mentre si immagina di arrivare un secondo prima che la tragedia si compia per provare ad evitarla. A mettersi tra la bimba e la fossa. Ma, e sono ancora le parole della Lady a dure qual è la verità, «sfar non puoi la cosa fatta».

Tragedia della perdita il Macbeth di Giuseppe Verdi che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro La Fenice di Venezia. Myung-Whun Chung sul podio, alle prese per la prima volta con la partitura verdiana. Protagonisti Luca Salsi e Vittoria Yeo, lui Macbeth di riferimento degli ultimi anni, lei già diverse volte nei panni della Lady, qui (positivamente) irriconoscibili perché trasfigurati e intensi sino alle lacrime. Un Macbeth che inquieta e commuove perché ci butta in faccia le nostre debolezze e fragilità di uomini. Che si annidano nella parte più segreta della nostra anima, dove covano gli affetti. Che qualcuno (la Lady, ad esempio) vorrebbe chiudere con un lucchetto perché non facciano troppo male. Rimuoverli, con un inconscio meccanismo psicologico, seguendo la strada dell’ambizione.

Damiano Michieletto rilegge così il melodramma che Verdi ha tratto da Shakespeare. Un dramma borghese di una coppia che va in crisi per la morte di una figlia. Lui la vede ovunque, fantasma con il palloncino legato al polso. Fantasma che si moltiplica per tre nelle scene delle streghe, tramite tra il mondo dei morti e quello dei vivi per fare arrivare le profezie al re. A dire che tutta la tragedia ha origine da quella perdita, che a guidare l’azione di Macbeth, uomo disperato e non eroe, è quella mancanza, quell’altalena rimasta vuota. Tragedia che il re non è riuscito ad evitare e che lo ha segnato per sempre. Cosi come ha segnato lei, la Lady, che, però, fa di tutto per dimenticarla. Per rimuovere il ricordo della sua maternità spezzata dalla morte. Scaccia la figlia dalla sua mente tutta concentrata sull’ascesa al potere. Tranne vedersela davanti alla fine nella foresta di altalene dove Michieletto ambienta la pazzia: il vestito rosso delle ultime ore di vita, in mano i peluche che erano i suoi giochi e che la Lady aveva chiuso, con un lucchetto appunto, in una bara. La stessa nella quale giacciono i figli di Macduff nella straziante immagine che apre i quarto atto: le bare bianche davanti alle quali il coro canta la mesta marcia funebre del Patria oppressa e Macduff intona la sua straziante (sentita così lenta è ancora pù cruda e inquietante) Paterna mano.

Vittime della mente annebbiata del re e della regina. Che nemmeno gli psicofarmaci riescono a sgomberare dalle allucinazioni. Perché Macbeth e la Lady non sopportano la felicità altrui, di altre famiglie, di altre coppie, di altri figli. La guardano da lontano, infastiditi. Meditano – brivido che ti fa venire in mente la cronaca nera che leggiamo (abbiamo letto) sui nostri giornali -, pianificano una vendetta. Che passa proprio attraverso la soppressione dell’innocenza. Incarnata dai bambini e dai vecchi, raccontata dalla regia con immagini forti come la foresta di altalene vuote, come il triciclo (anche lui) vuoto che evoca le apparizioni, i figli di Macduff e di Banco che soffiano le candeline della torta del nonno/Duncano, ultimo alito di vita premia della sua morte.

Poesia delle cose semplici, per una regia capolavoro di quelle che ti scavano dentro. E ti inquietano perché con Verdi il regista veneziano racconta qualcosa di noi. Anche di quella parte di noi che più ci spaventa, alla quale fatichiamo a dare un nome. Dolore necessario, però, per far pace con la vita. Macbeth lo fa, alla fine, quando (scelta azzeccatissima e necessaria alla lettura registico/musicale quella di inserire il Mal per me che m’affidai tratto dalla prima versione del 1847 della partitura – mentre sul leggio c’è la versione 1865) punta il dito contro la corona. E forse i dissensi che una parte del pubblico ha indirizzato a fine serata a Michieletto e alla sua squadra sono sintomo proprio di questa paura, il tentativo di dire: io non sono così. Invece lo spettacolo, che sembra un’autopsia di un’anima che non sa più amare, ci dice che Macbeth e la Lady siamo anche noi.

Una scena fredda e livida come un obitorio quella disegnata con geometrico fascino da Paolo Fantin. Un laboratorio dove i morti vengono chiusi in sacchi di plastica, dove il sangue non è rosso, ma bianco, calce che cementa le tombe. Un obitorio sul cui tavolo Michieletto viviseziona i personaggi vestiti come noi che guardiamo in platea da Carla Teti. Luci al neon (ideate da Fabio Barettin) ai lati, grandi teli di plastica che scorrono avanti e indietro disegnando gli spazi dell’azione, trasparenti, ma anche materici, partei da strappare con rabbia, schermi sui quali si accampano le ombre, bolle sospese in aria cui basta un attimo per diventare massa informe. Teli che svelano i personaggi, che li inghiottendo dando al racconto i contorni sfumati del sogno/delirio perché i protagonisti potrebbero abitare le nostre case, le streghe – zombie senza volto che camminano, morti viventi che sono voce del passato -, invece, i nostri incubi. Plastica da raccolta differenziata di una vita a pezzi come quella di Macbeth che finirà la sua vita proprio in uno di quei teli, avvolgendosi in esso come fosse il mantello regale che per tutta la vita ha dovuto portare suo malgrado e non senza fastidio: nella scena del brindisi – qui cerimonia dell’incoronazione – la Lady glielo rimetterà più volte addosso mentre dopo che lui se lo lascia cadere dalle spalle. Uno dei tanti particolari, questo, di uno spettacolo raccontato, dove la trama arriva chiarissima. Ma anche pieno di simboli che il pubblico può e deve rileggere con il proprio vissuto.

Lettura registica che si sposa perfettamente con la direzione di Chung, barbara e sconquassante, con bordate di suono che ti arrivano come un pugno nello stomaco nelle scene di massa, nei punti di svolta del racconto musicale. Ma capace anche di sfumature che sanno di poesia, di momenti stranianti e allucinati di musica che sembra venire da lontano. Un’interpretazione non convenzionale della partitura verdiana con un respiro quasi sinfonico che proietta Verdi verso un Novecento espressionistico, ma lo rimpicciolisce anche in una dimensione cameristica per raccontare i momenti intimi e sofferti.

Lettura nella quale i cantanti si gettano a capofitto. Luca Salsi ha voce, sfumature, intensità drammatica per raccontare un Macbeth schiacciato dal lutto e incapace di reagire. Il baritono scolpisce la parola nella musica, piega il suo carisma debordante ad una lettura non convenzionale che riscrive da dentro il personaggio, con nuove intenzioni sceniche e musicali che lo illuminano di un’umanità tanto inaspettata quanto sorprendente. Vittoria Yeo nella figura e nella voce ha la fredda lucidità della Lady che disegna piccola e insinuante, figura che lavora di cesello nell’ombra, più belcantistica che verista. Simon Lim restituisce le inquietudini cupe di Banco, lo squillo di Stefano Secco le fragilità di Macduff. Elisabetta Martorana è una Dama/cameriera, armando Gabba un Medico/psichiatra. Marcello Nardis ha  squillo nitido nella voce e figura imponente per un Malcolm che alla fine, quando Macbeth è morto nella plastica e il coro lo acclama come nuovo re assicura «Fu spento l’oppressor, la gioia eternerò». E, non senza un brivido, indossa la corona e si siede sull’altalena/trono che viene issata in alto. A dire, mentre come un presagio di nuovi lutti il sangue bianco torna a scorrere sulla parete nera di fondo, che dietro l’angolo c’è sempre il rischio che gli uomini non imparino dalla storia.

Nelle foto @Michele Crosera Teatro la Fenice Macbeth di Verdi

Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 25 novembre 2018