Scala, Ernani e il daspo per gli ultras della lirica

Bagarre alla prima dell’opera di Verdi che mancava dal 1982 Fischi dal loggione che non perde il vizio di voler dettar legge in un fantacalcio del melodramma che non fa bene a nessuno

Premessa necessaria. Non stiamo parlando di def, di reddito di cittadinanza o di riforma delle pensioni. Ovvero nodi problematici quanto urgenti di questi tempi per la vita dei cittadini italiani. Stiamo parlando di musica. Musica lirica. E forse di beghe che riguardano poche decine di persone. Che, però, tengono in scacco altre persone, cittadini che, andando a teatro, alimentano attraverso l’arte lo spirito. Attività quanto mai necessaria per evitare l’imbarbarimento al quale quotidianamente assistiamo: per strada, in tram, in fila alla posta, pronti a scagliarci gli uni contro gli altri nel solco del «potere al popolo, basta con i furbi» sbandierato ogni giorno dalla politica. Imbarbarimento al quale assistiamo anche al Teatro alla Scala. Basta guardare in alto, agli ultimi due piani della sala, il cosiddetto loggione. Tanto che  viene da invocare il daspo. Come allo stadio, per gli ultrà. Un daspo per tenere fuori la maleducazione. Un daspo contro la violenza, che in teatro non è (per ora?) fisica, ma verbale. Che fa comunque male, però. Un daspo per provare ad arginare quell’usanza (tutta italiana, verrebbe da dire) che, parlando in termini sportivi, è quella di voler fare gli allenatori di calcio il lunedì mattina al bar. E, parlando di opera lirica, i direttori artistici sotto i portici di via Filodrammatici.

I fatti. Prima di Ernani di Giuseppe Verdi al Teatro alla Scala, sabato 29 settembre. Titolo attesissimo perché mancava dal Piermarini dal 9 gennaio 1983, ultima replica del ciclo di recite iniziate il 7 dicembre del 1982 (sul podio Riccardo Muti, regia di Luca Ronconi, in scena Placido Domingo, Mirella Freni, Renato Bruson e Nicolai Ghiaurov, tutti fischiati, per la cronaca). I primi due atti vanno lisci. Anche con applausi a scena aperta. Solo qualche chiacchiericcio dall’alto, anche se è difficile individuarne con precisione la provenienza. Va anche il terzo, compreso l’applauso che saluta la romanza di Carlo V (che in scena è il baritono Luca Salsi) Oh de’ verd’anni miei. Arriva poi il cambio di scena tra terzo e quarto atto. Mezzeluci in sala e davanti al sipario appaiono due ballerine di can can. Esibiscono alcuni cartelli: «Breve pausa», «Lo spettacolo riprenderà tra tre minuti», «Forse…». E dal loggione iniziano a piovere buu e fischi, misti a grida di «Basta! Verdi non è il varietà! Vergogna!». La musica, quella della banda fuori scena a evocare la festa di nozze tra Ernani ed Elvia, parte. Ma i buu non finiscono. Continuano e rischiano di far perdere al coro l’attacco. Ádám Fisher – e Bruno Casoni dietro le quinte – sono pronti e non si lasciano sfuggire di mano la situazione. Al pubblico fanno perdere, di certo, la magia della musica. Festa di nozze in maschera. Servitori travestiti da angeli offrono calici di vino. E dal loggione partono sonore risate che coprono la musica. L’atto finisce e, come si poteva prevedere, il regista Seven-Eric Bechtolf e tutta la sua squadra sono coperti di fischi. Ma, un po’ inaspettatamente, i dissensi piovono addosso come cannonate anche ad Ailyn Perez, protagonista nei panni di Elvira. Inaspettati tanto che la compagnia le si stringe attorno (con il tenore Francesco Meli che sfida i contestatori con uno sguardo truce verso l’alto) e il pubblico la saluta con applausi e «Brava!». Gesti che non placano, però, i buu sino a che il sipario non è calato definitivamente. E che lasciano con qualche punto di domanda il pubblico straniero che, uscendo dal teatro si chiede «Why?».

Ecco (la necessità di) un daspo. Un daspo alla maleducazione. Come altro chiamarla? Un daspo di buonsenso, non certo imposto dalla procura su segnalazione delle forze dell’ordine. Un daspo non al dissenso, ma a quella pretesa di voler spostare l’asse dello spettacolo dal palcoscenico alla sala, per provare ad essere protagonisti l’indomani su qualche lancio di agenzia. O per sentirsi una volta di più giocatori di un fantacalcio della lirica decidendo chi deve e non deve cantare questa o quella opera, come si deve dirigere questa o quella partitura, come si deve raccontare questa o quella trama. E qui non c’entra la presunta onnipotenza che danno i social dove tutti possono dire tutto a tutti. Perché il vizio viene da lontano: l’elenco sarebbe lungo, pieno di nomi illustri della lirica di ieri e di oggi stroncarti dal loggione, ma basta ricordare Maria Callas… solo per citare la più grande di tutti. Contestazioni spesso premeditate: difficile credere che i volantini lanciati in platea nel 2013 per Un ballo in maschera  con la regia di Damiano Michieletto vennero stampati durante la recita…

Forme di protesta, come quelle dell’altra sera, che nel loro eccesso hanno l’effetto paradossale di mettere in ombra le vere pecche dello spettacolo. E le responsabilità di chi lo ha programmato così. Prendiamo Ernani, appunto. Idea non certo nuova quella del teatro nel teatro messa in campo da Bechtolf con lo stratagemma di una compagnia dell’Ottocento chiamata a mettere in scena il melodramma verdiano. Potrebbe funzionare con scene dipinte a evocare – anche ironicamente, quasi a dire. Volete l’opera tradizionale? Beccatevela! – le figurine Liebig. Peccato che l’idea che il regista tedesco ha del teatro ottocentesco sembri venire più che da un accurato lavoro sulle fonti da pellicole cinematografiche più o meno operistiche alla Fra Diavolo di Stanlio e Ollio o alla San Francisco di Woody Van Dyke. Mossette e gesti vecchio stile nella recitazione, personaggi eccessivamente caricaturali vengono da qui. E hanno forse, nell’idea registica, un loro perché. Non hanno un perché, invece, le grisette danzanti. D’accordo la fonte di Victor Hugo, ma le ballerine di can can stonano. Ingenuità (?) che forse, se ripulita in sede di prova, avrebbe evitato il naufragio al regista.

Sul leggio di Ádám Fisher c’è l’edizione critica della partitura. Benissimo. Anche l’approccio dovrebbe, forse, essere più critico, a tratti meno garibaldino e più in bilico tra il belcanto che c’era e il Verdi introspettivo che verrà. Detto questo Fischer è un direttore di grande esperienza che tiene bene insieme orchestra e palcoscenico, ha tempi teatrali e un suono pieno, corposo, verdiano come le voci in campo. Vincono quelle maschili. Quella di Francesco Meli, Ernani musicalmente e interpretativamente affascinante, quella di Luca Salsi, che offre la sua voce avvolgente e piena e il suo trasporto umano che tocca le corde dell’anima a Carlo V e quella di Ildar Abdrazakov, Silva imponente e terribile. Aylin Perez, forse non ha il peso vocale richiesto da Elvira, ma affronta concentrata la parte per provare a superare le difficoltà del personaggio. Può non piacere, d’accordo. Ma perché farlo notare così rumorosamente e ripetutamente?

Come manifestare, allora, il dissenso? Non applaudendo, forse la cosa più raggelante. Con fischi, perché no, purché non sfocino in maleducazione. Scrivendo una lettera alla sovrintendenza. Argomentando, senza livore, su Facebook e social vari, il perché «per me è un no». Oppure, meglio ancora, non comprando il biglietto, non costringendosi masochisticamente ad ascoltare cose che si sa già non piaceranno. Gioverebbe alla salute. Di tutti.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Ernani