Mariotti, con Don Carlo vi racconto
la solitudine dell’uomo

Il direttore al Comunale di Bologna debutta nel capolavoro di Verdi Racconta il suo essere figlio e padre, la sua Pesaro e  il legame con Rossini e tutti gli impegni in agenda per i prossimi mesi dalla Scala a Parigi

«Don Carlo è un’opera che ti mette di fronte alla vita. Racconta di desideri irrealizzati. Sconfitte. Solitudini». Michele Mariotti si confronta per la prima volta con il melodramma di Giuseppe Verdi sulla soglia dei quarant’anni «dopo scelte ponderate, per non fare il passo più lungo della gamba. E, soprattutto, forte di un bagaglio di esperienze di vita vissuta». Lo fa dal 6 giugno al Comunale di Bologna, teatro che guida come direttore musicale dal 2014 dopo essere stato direttore principale dal 2008. Nuovo allestimento di Henning Brockhaus senza riferimenti alla Spagna di Filippo II e dell’Inquisizione del 1560. Sul leggio la versione in quattro atti approntata da Verdi per il Teatro alla Scala nel 1884. « Ho lavorato molto sul suono, sui colori in orchestra – ci racconta il direttore pesarese, classe 1979 – per rendere la solitudine di cui la partitura è pervasa, ma anche per raccontare la paura, la violenza dei rapporti umani che Verdi mette sotto la lente di ingrandimento».

Un’opera sul potere che opprime, che inganna, che fa di tutto per non essere sconfitto. Come non pensare ai poteri di oggi, Michele Mariotti?

«Quando dirigo certe pagine del Don Carlo che raccontano l’oppressione di un popolo mi sembra di sentire certi discorsi che circolano oggi, del “Si stava meglio quando si stava peggio…” seppur sotto un regime. Dichiarazioni nostalgiche che mi fanno venire i brividi. Nel duetto con l’Inquisitore c’è il cuore politico dell’opera perché Verdi fa del frate il ritratto del potere che striscia e agisce nell’ombra. Ma da questo confronto sia Filippo che l’Inquisitore escono perdenti. Don Carlo è un’opera sulla solitudine degli uomini di potere».

Filippo II è solo come soli sono Francesco Foscari e Simone Boccanegra.

«Filippo e Carlo, padre e figlio., sono protagonisti di uno scontro generazionale, politico e affettivo. Filippo solo per due volte in tutta l’opera parla come uomo e non come re. Nel duetto del primo atto con Posa, quando dice Osò lo sguardo tuo penetrar il mio soglio getta la maschera e chiede aiuto per capire se il sospetto che la regina lo tradisca con il figlio possa essere fondato. Succede anche nel duetto con il Grande Inquisitore quando racconta di aver trovato un confidente, un uomo leale, ma l’Inquisitore lo gela dicendogli perché lui che è il re ha bisogno di un uomo su cui fare affidamento».

E nella celebre aria Ella giammai m’amò che apre il terzo atto non c’è l’umanità di Filippo?

«Spesso in Verdi i personaggi si svelano nella loro verità quando sono soli, penso al Duca di Mantova che piange la perdita dell’amata in solitudine. La grande aria di Filippo, però, più che una dichiarazione di amore per Elisabetta è una riflessione amara sul tempo che scorre, perché Filippo non è un personaggio romantico. Per questo l’aria deve essere eseguita nella sua semplicità e linearità. Quando canta Già spunta il dì il re prende coscienza che ha davanti un’altra giornata di tormenti e solitudine».

Come dal podio racconta tutto questo?

«Durante le prove all’orchestra ho chiesto un continuo passaggio da un suono corposo a uno quasi rarefatto, fatto di un soffio come nel trasfigurato duetto tra Carlo ed Elisabetta che chiude l’opera. Un continuo andare e venire tra opposti. Assecondo poi la partitura verdiana, penso al quartetto del terzo atto dove tutti cantano a parte e dove c’è un’incomunicabilità di quattro solitudini. Ci metto la vita vissuta. D’altra parte noi direttori d’orchestra a nostro modo viviamo di solitudine».

Solitudine? Un direttore non sembrerebbe mai solo, anche per il fatto che per fare musica ha bisogno di un’orchestra. Cosa intende?

«Lo sradicamento cui ci costringe la nostra professione. Siamo spesso lontani da casa. Sradicati, appunto. Appena posso torno a Pesaro, dove sono nato e dove ho la mia famiglia e i miei amici, gli stessi di quando ero ragazzo: sono loro i miei punti di riferimento. Sono le mie certezze, gli appigli sicuri di cui ho bisogno. Come i luoghi della mia città che per un mese all’anno diventa una capitale internazionale grazie al Rossini opera festival e poi torna la città di provincia che amo, silenziosa, con il mare».

Pesaro e le radici. Don Carlo è un’opera con al centro il rapporto tra un padre e un figlio, Filippo II  e Carlo. Lei che rapporto ha con suo padre Gianfranco, storico sovrintendente del Rossini opera festival?

«Rapporto terribile quello tra Carlo e Filippo. Io, per fortuna, con mio padre ho un rapporto di grande amore e di affetto. Per me è un riferimento, dice sempre la cosa giusta. Ho in me un senso dell’abbandono perché mia madre è morta che ero molto piccolo, ma il solo sentire la voce di mio padre mi rassicura. A mia volta sono padre di un bimbo di nove anni: quando non sono lontano per lavoro stiamo insieme e ogni volta è una gioia immensa. Spero il meglio per lui».

Pesaro e Gioachino Rossini, autore del quale nel 2018 si ricordano i centocinquant’anni dalla morte.

«Rossini è un musicista di una profondità incredibile, secondo me tuttora non compreso appieno per quello che è. Passa per essere un autore di opere buffe, amante del mangiar bene e delle belle donne. Eppure nei suoi Péchés de vieillesse cita otto dei suoi melodrammi e solo uno è un’opera buffa, L’italiana in Algeri. Nella dedica della Petite messe solennelle tra l’ironico e il malinconico spiega di sentirsi destinato ad essere un compositore di opere buffe. Era un suo cruccio. Rossini all’apice del successo, dopo il Guillaume Tell, come un grande campione, decise di ritirarsi: sono convinto che non lasciò per malattia, ma perché sapeva di non essere un uomo giusto per il Romanticismo che si proponeva di fotografare la realtà. Quella realtà che lui voleva invece raccontare, filtrare e dipingere  con la sua sensibilità».

Sensibilità che c’è tutta nello Stabat Mater dove il musicista racconta con piglio teatrale la scena del Calvario.

«Ho diretto da poco proprio lo Stabat Mater nella sala dell’Archiginnasio di Bologna dove il 18 marzo 1842, con la direzione di Gaetano Donizetti, la partitura ebbe la sua prima esecuzione italiana. Con l’orchestra del Comunale abbiamo inciso un disco di Ouverture e a fine giungo porteremo al Théâtre des Champs Elysées L’italiana in Algeri. La prima opera che ho diretto a Bologna».

Potrebbe essere anche una delle ultime? A dicembre si chiude il suo mandato come direttore musicale.

La scelta dell’opera non è voluta. Sul mio futuro a Bologna non c’è ancora nulla di ufficiale, non abbiamo ancora parlato con il sovrintendente Fulvio Macciardi. Per quel che mi riguarda, però, sento che un cerchio sia chiuso».

Saluterà Bologna a dicembre con Don Giovanni di Mozart. Ma la sua agenda è pienissima. A cominciare dal ritorno al Teatro alla Scala a giugno del 2019 con I masnadieri.

«Verdi è un autore che ha sempre di più un ruolo centrale nel mio percorso artistico: la sua profondità e il senso teatrale delle sue partiture che lo rendono unico. Ho affrontato alcuni capolavori della maturità come Simone e Don Carlo, ma ho frequentato molto anche il primo Verdi, periodo di cui I masnadieri fanno parte. A Milano mancano da quarant’anni: era il 1978 quando li diresse l’attuale direttore musicale Riccardo Chailly. Torno alla Scala con grande gioia, teatro dove ho sempre lavorato costruendo con tutti un bel rapporto, semplice e naturale, di grande rispetto reciproco. Sono felice, dopo essermi avventurato sulle strade meno battute dell’Orphee di Gluck, del progetto de I masnadieri che, dopo le recite in teatro, porteremo in tournée la prossima estate in Svezia al Festival di Savonlinna. Quest’opera, come le altre del primo Verdi, va affrontata credendoci al 100%: il musicista di Busseto ha vissuto uno sviluppo costante di maturazione nel suo percorso e ogni opera deve essere compresa e interpretata nel quadro del momento storico in cui è stata scritta. Bisogna entrarci con convinzione, affondare le mani più che in altre partiture valorizzandone ogni dettaglio. È chiaro che Otello vince ai punti, ma la sfida di affrontare tutto Verdi vale la pena di essere raccolta».

Verdi, ma non solo, anche all’Opéra de Paris dove la prossima stagione sarà sul podio per tre titoli.

«A settembre inauguro il cartellone con Les Huguenots di Meyerbeer. Ad aprile del 2019 dirigerò Don Pasquale, opera dal sapore schubertiano di Donizetti, malinconica e per nulla buffa. A settembre, infine, Traviata. Partiture che ho già diretto, ma per me ogni volta riprendere un’opera vuol dire ristudiarla da capo per scoprire cose nuove».

C’è un marchio di fabbrica italiano, un made in Italy nella lirica che il mondo ci chiede di esportare?

«Noi italiani abbiamo nel nostro dna il melodramma, è qualcosa di naturale, fa parte delle nostre radici. Lo dico pensando che ho amato veramente la musica russa quando l’ho sentita eseguire da artisti russi. Questo non signofoa che l’opera la possono fare solo gli italiani e Cajkovskij solo i russi, intendiamoci. Ma nell’umanità degli artisti ci sono inscritti elementi che danno profondità culturale alle note. Io sono orgoglioso di avere nel dna il melodramma italiano e di poterlo eseguire e far conoscere in tutto il mondo».

Michele Mariotti nelle foto di Gennari, Borzoni e Più luce

 

Aronica, Siri e Salsi, grandi voci per il Verdi politico

Storia di un potere che opprime. Di amori impossibili. Di speranze in un futuro migliore. Il 6 gugno al Teatro Comunale di Bologna debutta un nuovo allestimento di Don Carlo di Giuseppe Verdi. Sul podio Michele Mariotti. Don Carlo è Roberto Aronica, Elisabetta ha lil volto e la voce di Maria José Siri. Luca Salsi, baritono verdiano per eccellenza, debutta neli panni di Rodrigo. Dmitry Beloselskiy è Filippo II mentre Veronica Simeoni è Eboli. In scena le versione in quattro atti apporontata da Verdi nel 1884 per il Teatro alla Scala dopo il debutto dell’opera, in vesrione grand opera, nel 1867 aParigi. Regia e luci di Henning Brockhaus, scene di Nicola Rubertelli, costumi di Giancarlo Colis, coreografie di Valentina Escobar. La prima di mercoledì 6 giugno sarà trasmessa in diretta su Radio3 Rai a partire dalle 20. Repliche sino al 14 giugno. Biglietti da 125 a 10 euro. Info su http://www. comunalebologna.it

Nelle foto di Rocco Casaluci alcune immagini di Don Carlo al Comunale di Bologna