Giordana, per l’opera potrei dire addio al cinema

Il regista per il (quasi) debutto lirico porta al Maggio fiorentino la rara Battaglia di Legnano di Verdi: Racconta la nostra storia

«La vera sfida, oggi che attualizzare e modernizzare sono le parole d’ordine anche all’opera, è ritornare alla tradizione». Ecco perché stasera sul palco del Teatro del Maggio musicale fiorentino andrà in scena La battaglia di Legnano «ambientata nel 1176 così come indicato nel libretto di Salvatore Cammarano». Marco Tullio Giordana ha scelto Giuseppe Verdi per il suo (quasi) debutto nella lirica. «L’unico precedente è un Elisir d’amore nel 1990 al Teatro Verdi di Trieste». A Firenze, per l’edizione numero 81 del Maggio, lo ha chiamato il sovrintendente Cristiano Chiarot. «Ho detto subito sì perché quella per la musica è una passione che coltivo sin da bambino quando in casa c’era un disco con la Passacaglia in do minore di Bach la Water music di Haendel e i Concerti grossi di Corelli e papà mi insegnava a riconoscerli» spiega il regista cinematografico milanese, classe 1950, che ha raccontato l’Italia del Novecento in pellicole come I cento passi e La meglio gioventù. «Se stasera andrà bene la mia carriera potrebbe anche prendere una svolta lirica. In certi momenti penso che potrei dire addio al cinema. E forse, dopo quasi quarant’anni dietro la macchina da presa, potrebbe essere anche venuto il momento».

Vuole dire, Marco Tullio Giordana, che non girerà più film?

«Nulla di deciso. Saprei, però, cosa fare: andrei a coltivare la terra, il mio sogno da sempre. Per intanto sulla scrivania ho la sceneggiatura del prossimo film che inizierò a girare a fine anno. Ma non nascondo che mi capita di pensare di smettere. L’opera lirica è meno stressante, consente un maggior lavoro sugli attori e sull’interpretazione, cosa che nel cinema, dove i tempi di lavorazione sono sempre più stretti per via dei costi di produzione, non avviene. Penso che un regista debba girare un film o curare un allestimento teatrale solo quando ha qualcosa di veramente necessario e urgente da dire. Fare un film tanto per essere sul mercato o per puro spirito narcisistico è qualcosa che non mi appartiene».

Cosa vuole dire, allora, con questa regia tradizionale della verdiana Battaglia di Legnano, opera che si ascolta raramente?

«Che la storia ha molto da insegnarci. Ho scelto la fedeltà al 1176 del libretto perché mi piace pensare che era quello che voleva Verdi, capace di parlare al suo e al nostro presente con una vicenda di secoli prima. Le mie origini, oltre che milanesi, sono cremasche e quando ero bambino i nonni mi raccontavano le leggende legate allo scontro tra Crema, fedele alla Lega Lombarda, e Cremona, alleata con il Barbarossa. Mi affascinava il senso di unità che suggeriva quel patto, celebrato anche da Manzoni».

Come non pensare ad un’altra Lega, quella che oggi sta per andare al governo?

«La Lega Lombarda della Battaglia di Legnano era nata per unire i Comuni, quella di oggi, invece, per dividere. Non ho voluto forzare la mano, tanto più che non mi interessa raccontare il mondo di oggi attraverso i suoi politici, non lo farei nemmeno al cinema. A maggior ragione con un melodramma. Mi sono avvicinato con umiltà alla lirica e da interprete mi sono attenuto ai fatti storici. Per rendere credibili le vicende ho cercato di lavorare sulla recitazione dei cantanti, mi sono messo in ascolto della musica che indica con precisione gli stati d’animo dei personaggi».

Verdi attraverso la storia vuole sempre raccontare storie di uomini. Che è un po’ quello che lei ha fatto nelle sue pellicole da La meglio gioventù a Sanguepazzo.

«La storia mi ha sempre appassionato. Da bambino amavo il Risorgimento, conoscevo tutte le battaglie e sapevo a memoria i nomi di tutti i generali. Poi, con la giovinezza, sono passato al Novecento. La storia che fa da sfondo alle vicende dei personaggi dei miei film non è solo un pretesto, ma aiuta a rendere eterni sentimenti universali. Questa è un’idea che ho preso proprio dall’opera e da Verdi in particolare. Così come ho ben presente la forma musicale tipica del melodramma con recitativo, aria e cabaletta quando scrivo una sceneggiatura. Lo faccio anche un po’ inconsapevolmente perché ho respirato l’opera lirica sin da bambino, da quando a cinque anni i miei genitori mi portarono alla Scala per la mitica Traviata di Visconti con la Callas».

Tempi in cui l’opera scatenava rivalità quasi a livello calcistico.

«La lirica oggi rischia di rivolgersi solo a un’elite di persone, ha perso la popolarità delle origini: il suo posto lo hanno preso altri linguaggi come la televisione o i social. Eppure le tematiche che affronta sono ancora attualissime».

C’è un modo per tornare a renderla popolare?

«Forse guardando al cinema che ha una grande forza evocativa, che riesce a rappresentare epoche storiche lontane come se fossero vicinissime. E che ha la capacità, se fatto bene e costruito su documenti attendibili, di offrire uno spaccato di storia che aiuta a conoscere il passato per capire il presente».

Frequenta l’opera?

«Ogni tanto. Ma la ascolto molto: la tecnologia in questo è fantastica nel rendere tutto fruibile. Vado spesso a teatro, per vedere gli attori, ma vado in incognito e non alle prime perché mi interessa capire il talento di un attore nella quotidianità del lavoro, quando il regista e la tensione della prima non ci sono più».

Rivede i suoi film?

«Mai. I primi lavori sono addirittura introvabili. Di recente mi è capitato di partecipare a qualche retrospettiva che mi hanno dedicato e inevitabilmente mi sono rivisto».

E con i premi che rapporto ha?

«Fanno piacere, non lo nego. Ma non li colleziono. E spesso non li ricordo neppure. Sarà perché dagli anni Ottanta fino al 2000, quando è arrivata la popolarità grazie a I cento passi, la mia carriera è stata difficile. Ho lavorato con più facilità negli anni della maturità. Che è un po’ il contrario di quello che avviene oggi perché nel cinema, rispetto a quanto accade in tutti gli altri settori, il ricambio generazionale c’è e sono diversi i giovani registi che si affermano con successo. Ogni tanto mi piacerebbe affidare a loro il soggetto di qualche mio film per vedere come lo racconterebbero con la sensibilità di un giovane d’oggi».

Quale il soggetto del suo prossimo film?

«La corruzione, uno dei guai che l’Italia si trascina da tempo, una patologia che pensavamo avesse toccato il suo apice con Tangentopoli, ma che poi non ha fatto altro che peggiorare. Vorrei raccontare, senza moralismi, i nodi di un paese che si trova imprigionato nelle sabbie mobili della corruzione».

Articolo pubblicato su Avvenire del 22 maggio 2018