Florez porta Orfeo negli abissi dell’anima

Il tenore alla Scala con la versione francese dell’opera di Gluck in un allestimento tra canto e danza diretto da Mariotti

D’accordo. Il viaggio di Orfeo agli inferi è un viaggio nello spazio per andare agli inferi a prendere la moglie morta e riportarla in vita. Ma raccontato in musica il mito diventa un viaggio dell’anima, uno scendere negli abissi di se stessi per far pace con la morte e vivere nonostante il lutto.

Nessun lieto fine nell’Orphée et Euridice di Christoph Willibald Gluck, in scena tra canto e danza al Teatro alla Scala per la prima volta nella versione francese. Niente happy end nella lettura del regista John Fulljames e del coreografo Hofesh Shechter che chiudono il mito in una sorta di hangar senza tempo (scene e costumi di Conor Murphy), quasi un laboratorio dove  dimostrare che i sentimenti di Orfeo, provato dalla morte di Euridice, appartengono a tutti. Il viaggio agli inferi e il monito di Amore a non voltarsi mai a guardarla pena perderla per sempre. Cosa che puntualmente avviene.

Se nel mito Amore riconsegna fisicamente Euridice a Orfeo qui è un altro amore, scritto con la a minuscola, a illuminare di senso la morte. Così lo svela la direzione trasfigurata e sublime di Michele Mariotti capace di restituire intatta la bellezza che lascia senza fiato della pagina di Gluck. Così lo raccontano nella loro narrazione asciutta ed essenziale Fulljames e Shechter che attorno al mattat(en)ore Juan Diego Florez costruiscono uno spettacolo dove la musica è al centro. Anche visivamente perché l’orchestra è in palcoscenico, su una pedana che muovendosi per spazializzare l’azione e il suono porta i musicisti a dominare l’azione dall’alto o ad osservarla dal basso.

Musica non solo suonata, ma anche danzata dalla compagnia britannica dello stesso Shechter (riconoscibile il suo stile dove il classico si sporca di gesti quotidiani e dove la luce si fa anch’essa coreografia). Musica cantata con stile insuperabile e voce dalla bellezza immutata di Florez, ma anche da Christiane Karg (Euridice) e Fatma Said (Amour) che, in una sintonia perfetta con Mariotti (che dirige dando le spalle ai cantanti), raccontano la vita temprata dal dolore.

Florez: in viaggo con Orfeo per accettare la perdita

«Quello di Orfeo è un viaggio fatto per accettare il distacco, per comprendere il significato di una perdita, per raggiungere la consapevolezza della morte». Detto così è un viaggio che non ha tempo. Come il mito, che ha raccontato e racconta qualcosa di universale «perché ancora oggi l’uomo non smette di interrogarsi di fronte al mistero della morte». Da stasera Juan Diego Flórez è Orfeo al Teatro alla Scala. O meglio, Orphée perché l’opera di Christoph Willibald Gluck va in scena per la prima volta al Piermarini nella versione francese del 1774, Orphée et Euridice appunto, realizzata per Parigi dall’originale italiana (che invece alla Scala si è ascoltata più volte, l’ultima con Riccardo Muti) presentata nel 1762 a Vienna. «Versione che a differenza di quella italiana, molto più baroccheggiante, dove il protagonista è affidato a un contralto, prevede un tenore per il ruolo di Orfeo». Sul podio Michele Mariotti al suo primo Gluck.

«Un grande monologo dove la parola in musica riveste una grandissima importanza, un ruolo che mi vede scempre in scena per raccontare una solitudine, quella di Orfeo che paragono a quella di Werther o Romeo» racconta Flórez, peruviano, classe 1973, tra i tenori più amati oggi dal pubblico. Una carriera partita proprio dalla Scala e proprio con Gluck: «Era il 7 dicembre 1996 e vestivo i panni de Le chevalier Danois nell’Armide diretta da Riccardo Muti. Tornare qui è per me come tornare a casa perché sono nato artisticamente su questo palco. È il primo teatro dove ho cantato: conosco tutti e mi sento in famiglia» sorride Flórez che ha da sempre in repertorio il ruolo di Orfeo. «È un poeta e un musicista che perde la propria amata. La cerca perché non si rassegna alla sua morte. Fa un viaggio che lo porta in un mondo sotterraneo, agli inferi dove la incontra e dove riesce con il suo canto a commuovere le furie e a strappare Euridice alla morte, riportandola in vita. Ma la perde di nuovo, perché non riesce a non guardarla, come imposto da Amore, mentre la riporta in vita» dice il cantante riassumendo il libretto scritto da Ranieri de’ Calzibigi e tradotto poi in francese da Pierre Loius Moline. «L’aria J’ai perdu mon Euridice è un lamento disperato perché non c’è nulla che possa compensare questa immensa perdita. Però alla fine Euridice torna in vita e Orfeo decide di lasciarla andare perché ha compiuto un percorso di accettazione della perdita».

Succede anche nella versione registica di John Fulljames e Hofesh Shechter: «All’inizio Orfeo assiste alla cremazione di Euridice. Disperato decide di scendere negli inferi a cercarla. Questa interpretazione registica di segno moderno mi permette di essere più vero e di raccontare una storia che accade ancora oggi» riflette Flórez che dopo aver cantato in questa produzione alla Royal opera house Covent Garden di Londra ha chiesto alla Scala di portarla a Milano «per la particolarità dell’allestimento che mette al centro la musica». L’orchestra, infatti, è sul palcoscenico, collocata su un ponte mobile che sale e scende continuamente portando i musicisti a livello dell’azione, ma anche in alto a dominarla. «Una modalità anche visibile per dire che in Gluck al centro di tutto c’è la musica. Certo è una sfida in più perché spesso cantiamo senza vedere in faccia il direttore. Ma è anche una sfida divertente» spiega il tenore che racconta poi un’altra particolarità dell’allestimento londinese. «Proprio perché in Orphée oltre al canto c’è molta musica i registi hanno pensato ad un’opera-balletto: sul palco ci sono i ballerini della Hofesh Shechter dance company che hanno movimenti quasi animaleschi, sentono il vibrare della terra e lo traducono in danza contrappuntando l’azione sempre nel pieno rispetto della musica».

Con Flórez sul palco Christiane Karg nel ruolo di Euridice e Fatma Said come Amour. «E poi il coro della Scala che è unico: spesso in prova quasi mi dimenticavo di dover cantare perché rimanevo incantato ad ascoltare le loro voci» rivela il tenore per il quale «nonostante il ruolo impervio, con molte note sovracute, non vado in scena con la paura, ma cercando di godermi la musica di Gluck e dando tutto come persona e come interprete. Nonostante la mia voce sia cambiata».

Dopo tanto belcanto, dopo tanto Rossini Flórez racconta che «con la maturità la mia voce è cambiata ed è pronta per affrontare un nuovo repertorio: penso siano maturati i tempi per affrontare anche altri ruoli che sogno da tempo. Ho fatto I racconti di Hoffmann, Werther, farò Manon di Massenet e molto repertorio francese. Il registro centrale più corposo mi ha permesso di affrontare il Guglielmo Tell, La favorita nell’edizione francese. Ho in agenda Edgardo in Lucia di Lammermoor, il Duca di Mantova in Rigoletto e la prossima stagione a New York sarò per la prima volta Alfredo ne La Traviata. Canterò più spesso Mozart. E sempre con lo stile che ha contraddistinto la mia carriera, la prudenza nel scegliere il repertorio e lo studio approfondito delle partiture». Non è, però, un addio al belcanto perché, conclude il tenore, «non dimentico i miei ruoli di gioventù tanto che questa estate sarò al Rossini opera festival di Pesaro con Ricciardo e Zoraide».

Nella foto Brescia/Amisano Teatro alla Scala Juan Diego Florez, Christiane Karg e Fatma Said

Articoli pubblicato su Avvenire il 7 marzo e il 24 febbraio 2018